Home » Insegnamenti » Insegnamenti dei Maestri » Swami Satyananda Saraswati in Italia nel 1981 » Su Swami Shivananda
Conferenze di Swami Satyananda Saraswati in Italia
Su Swami Shivananda
Milano, Aprile 1981

Su Swami Shivananda
Milano, Aprile 1981
Si deve cominciare con qualcosa di molto semplice e basilare in modo tale che queste pratiche diventino un processo di autoscoperta.
Cominciate con il corpo. Cominciate con la comprensione e la scoperta dei diversi stati dei sensi, le differenti esperienze sensioriali.
Paramahamsaji, c’è qualche evento nella vita con il suo Guru, in relazione alla meditazione, che vorrebbe raccontarci?
Sapete che il mio guru era Swami Shivananda. Quest’anno a Zinal celebreremo il suo compleanno per conto di tutti gli insegnanti di yoga in Europa. L’Unione Europea delle Federazioni Nazionali di Yoga sponsorizzeranno queste celebrazioni. Io sarò l’oratore principale per tutti i quattro giorni, parlerò della sua vita, della sua filosofia, dei suoi insegnamenti e della sua visione. Sicuramente, per me è molto naturale dirvi che non dovreste perdere quell’opportunità essenzialmente per due motivi: perché avete il piacere di vedermi e io ho il piacere di vedervi. Quando due persone si amano reciprocamente hanno piacere di incontrarsi di tanto in tanto. Naturalmente il nostro amore appartiene a un altro livello di evoluzione; siamo tuttavia esseri umani.
Quando nel 1943 incontrai Swami Shivananda ero già sul sentiero. Il mio problema non era il samadhi. In effetti io appartenevo a quel gruppo di persone che non crede nei guru; pensavo che tutto fosse in me.
La prima esperienza la ebbi quando avevo sei anni. Quell’esperienza fu simile a quella che ebbe Ramana Maharishi. Quando Ramana Maharishi aveva sei anni, ebbe un’esperienza come di essere morto e di non essere più nel suo corpo. Io ebbi lo stesso tipo di esperienza, ma sembrò essere un po’ diversa. Io percepii la consapevolezza, non percepii il corpo. Capite cosa intendo? Supponete che vi facciano un tipo di iniezione che non vi rende incoscienti ma intorpidisce il corpo. In quel momento sareste consapevoli che ci siete, potete vedere il vostro corpo, ma non potete percepirlo. Per un po’ di tempo la consapevolezza del mio corpo fisico era completamente intorpidita. Fu solo per poco tempo, ma ricordo che mi sembrò molto lungo. Fui portato dai medici. Per fortuna a quei tempi, nel mio paese, non vi erano molti di questi benedetti medici. Uno dei concetti di Platone è che dove non c’è polizia c’è pace; dove non ci sono dottori non c’è malattia; dove non ci sono soldati non c’è conflitto. Questo è il concetto dello stato ideale di Platone nel suo famoso libro La Repubblica. Così fui portato dai quei pochi medici, ma non accadde nulla. Di tanto in tanto quell’esperienza si manifestava in me per breve tempo. Nel frattempo ero venuto a conoscenza di molti movimenti spirituali esistenti durante la mia prima infanzia, incontrai una grande donna, Ma Anandamayi, e conobbi molti altri guru.
Infine giunsi a una conclusione: questa esperienza era spontanea. Pensavo che sarei stato in grado di svilupparla volontariamente, ma come farlo? Ho incontrato molti grandi personaggi che mi hanno dato i loro consigli, ma essi semplicemente non influenzavano la mia mente, per due motivi: in primo luogo perché la mia prima istruzione era stata in un Convento Cristiano. Benché nato indù, intellettualmente ero cristiano, e quelle persone non facevano breccia nella mia testa. Io avevo letto tutti i libri su questi argomenti, “Imitazione di Cristo” di Tommaso da Kempis, i Gospel, la Bibbia, i Veda, le Upanishad e la Gita e avevo una profonda conoscenza di queste cose.
Poi arrivai alla materia chiamata tantra. Qualcuno mi disse che avrei dovuto portare le ceneri di un cadavere e praticare su di esso determinati mantra. Iniziai a fare anche quello. La notte andavo al cimitero e là praticavo ogni genere di cosa strana. Un giorno mio padre lo venne a sapere, lui era un uomo religioso molto severo, ed era seguace di un guru. Lui non credeva in tutte queste cose strane e mi disse: “Guarda, se lo fai, ti caccerò di casa!”. Ma la regola che mi era stata data era che dovevo portare a termine quel ciclo di pratiche. Io avevo già praticato per venticinque giorni circa e ne mancavano quindici per terminare. Allora ciò che feci fu di prendere le ceneri del cadavere e metterle in una ciotola. La notte, quando erano tutti a letto, io salivo sulla terrazza e cantavo i mantra e le invocazioni. Una notte accadde! Era un giorno prima dell’ultima notte, la notte successiva la pratica sarebbe finita. Mio padre sentì che qualcuno saltava sul tetto, come se qualcuno stesse danzando. Pensò che fosse arrivato qualche ladro. Prese la sua pistola e il suo fucile e uscì, ma non vide nessuno sul tetto. Ritornò a letto. E nuovamente sentì dei rumori. Uscì, ispezionò e non trovò nessuno. Da quel momento il suo sonno fu disturbato. Iniziò a pensare che ci fosse qualcosa di sbagliato, in lui o in qualcun altro. Mi chiamò e disse: “Cosa sta succedendo qui?” e come un’anima innocente io dissi: “Non so niente”. La mattina quando lui si recò nel terrazzo per ispezionarlo di nuovo, trovò un po’ di ceneri e giunse al punto. Ah! Lui si arrabbiò terribilmente e prese la ciotola e la buttò. Un giorno prima del termine, il mio sadhana fu bloccato.
Questa è solo una vaga idea che vi sto dando della mia vita. Tuttavia tali esperienze non mi diedero realmente soddisfazione, perché volevo gestire l’esperienza da solo. Quindi dopo quell’incidente chiesi a mio padre: “Bene, tu hai disturbato il mio sadhana, ma dimmi come sviluppare quell’esperienza”. Questo fece nascere un nuovo rapporto tra di noi e quello è il momento in cui sannyasa entrò nella mia vita. Decisi di non vivere un tipo di vita normale ma dedicare la mia vita alla scoperta dell’esperienza e a dire alle persone che c’è un’esperienza. Ma il mio viaggio non era finito. Nel 1942 lasciai i miei genitori, i miei luoghi e ogni cosa.
All’inizio non sapevo dove andare e avevo pochi soldi in tasca. Mi capitò di ricordarmi di una delle mie sorelle adottive. Io avevo una sorella vera che era medico, che si convertì al Cristianesimo, e che morì pochi anni dopo. Quindi adottai questa ragazza come sorella, anche lei era un medico. Andai con lei in India occidentale. Lei aveva un guru che le aveva insegnato il kriya yoga. Lei mi condusse da quel guru. Era un uomo molto anziano, forse all’epoca aveva superato gli ottanta anni. Egli mi accolse molto bene nel suo ashram. Avevo circa diciotto o diciannove anni. Ma dopo circa tre mesi scoprii che volevo sapere di più. Lui era un guru tantrico che mi diede tutta la conoscenza del tantra. Egli, in effetti, mi iniziò a tutti i misteri delle pratiche tanniche. Egli mi insegnò vajroli e khechari. Ma lui mi disse di non essere il mio guru, disse che lui era il mio insegnante. Così il mio viaggio non era ancora terminato.
Dopo alcuni mesi lasciai quel luogo. Senza un nome, senza alcuna destinazione e senza denaro. Non so nemmeno se mangiai in quel periodo. Ricordo vagamente che in uno stato particolare dell’India del Nord, a Bareilly nel Up, presi alcune decisioni dentro di me. Sapete cosa decisi? Mi sedetti su un treno e dissi: “Andrò dove mi porterà”. Non cambiai treno perché non avevo soldi. Nel treno vidi un uomo con la barba. Indossava questo abito gheru e fumava sigarette. Io non fumavo da molti giorni perché non avevo soldi. Andai da lui e gli chiesi: “Mi permetti di fare un tiro con te?”. Sapete che gli swami in India hanno un modo particolare di comportarsi e lui mi chiese dove stavo andando. Io risposi: “Dovunque va il treno”. Lui rispose: “Ma il treno continua ad andare e venire”. E io: “Ho deciso di fare lo stesso anche io”. Lui chiese perché e la mia risposta fu: “Perché il mio cervello ha fallito. La luce spirituale mi confonde. La voglio, ma non riesco a pensare niente a riguardo”. Lui mi disse: “Trova un bravo guru” e io chiesi dove trovarlo. Lui replicò: “I guru non hanno un’etichetta, non hanno targhette”. Poi mi parlò di un posto chiamato Rishikesh e mi diede tutti i dettagli necessari. Andai a Rishikesh e lì mi recai da uno swami che mi indirizzò da Swami Shivananda.

Incontrai Swami Shivananda alle 8.30 del mattino, il 19 aprile 1943. Gli chiesi solo una cosa quando mi domandò perché fossi andato da lui: “Se uno ha un’esperienza spirituale spontanea, come può diventare padrone di quell’esperienza e averla a proprio piacimento?”. Lui disse: “Vivi qui, pratica karma yoga, purificati e abbi fede assoluta in Dio”. E quello fu il giorno in cui il mio viaggio giunse alla fine.
Durante tutta la mia vita ho incontrato molti grandi personaggi. Ho rispetto per tutti, e non critico nessuno per nessun motivo, ma sicuramente nessuno era stato capace di farmi arrendere. La mia resa nei suoi confronti fu completa e incondizionata. Ogni azione che faceva era divinamente meditata e calcolata. Benché vivesse in un corpo fisico, non era un’anima fisica. Nel 1956 mi chiamò e mi disse: “Quale sadhana stai facendo?”. Per dodici anni non mi aveva posto nessuna domanda del genere. Io praticavo asana, pranayama, ecc. ma non dietro indicazione del guru, piuttosto come scelta personale, istintiva. Praticavo un mantra, una grande quantità, poteva essere ventiquattro milioni di volte, e allo stesso tempo praticavo karma yoga, giorno e notte, come un toro, come un asino. Dopo un periodo di dodici anni lui mi chiese: “Che sadhana stai praticando?”. Gli risposi che facevo asana, pranayama, mantra japa e alcune altre cose. Mi chiese se praticavo kriya yoga e risposi di no, che ne avevo sentito parlare ma non lo facevo. Allora mi portò nella sua stanza e in dieci minuti mi insegnò il kriya yoga, o potete metterla in altri termini, in dieci minuti imparai il kriya yoga. Poi mi diede 108 rupie e mi disse: “Ora puoi andare. Questo ashram non è più il posto per te. Continua a spostarti e porta lo yoga nel mondo; portalo da porta a porta, da costa a costa e di casa in casa”. Allora lasciai l’ashram e iniziai a spostarmi. A quell’epoca ero molto giovane. Fu molto difficile andare via perché c’erano molti movimenti spirituali. Un uomo come me poteva difficilmente sopravvivere, perché non potevo mai mentire, mai complicare le situazioni, così continuai a spostarmi per molti anni.
Il 13 luglio 1963 improvvisamente mi svegliai dentro me stesso. In quel periodo ero a Munger. Semplicemente mi svegliai dentro di me, non all’esterno, e una visione mi attraversò la mente. Ero a Rishikesh, c’era il Gange, lo splendido Gange, e sul Gange navigava una nave meravigliosa. Sulla nave stavano suonando trombe e conchiglie, si percuotevano tamburi e suonavano le campane. Io non ero sulla nave, ero sulla riva del Gange, e la nave stava navigando dall’altra sponda. Come sapete, la nave ha una ruota. A un certo punto la nave fece un movimento tale che la ruota mi lanciò degli schizzi di acqua. La mia testa, il mio corpo e i miei abiti erano bagnati e io uscii, la visione interiore era finita. Capii ciò che significava: Swami Shivananda aveva lasciato il suo corpo mortale ed era entrato in Mahasamadhi.