“YOGA” 2006 – Vol. 3

“YOGA” 2006 – Vol. 3

Conferenza di Apertura dell’International Satyananda Yoga Festival

Di Swami Niranjanananda Saraswati, Venezia Lido, 19-21 Maggio 2006.

Hari Om Tat Sat. Sono molto felice di essere qui con tutti voi oggi. E questa felicità è per molti motivi. Per prima cosa siamo già un piccolo mondo dello yoga di per se stesso con la presenza di 33 paesi simultaneamente. In secondo luogo Venezia è una bellissima città sull’acqua ed un luogo storico che ha unito oriente e occidente ed anche questo evento è un incontro tra oriente ed occidente. Il terzo motivo è che in questi giorni discuteremo di yoga; yoga è il mio argomento e posso parlare molto su questo tema. Però, per poter comprendere lo yoga è necessario capire prima la vita, anche se in occidente lo yoga è noto come yoga fisico, mentale o spirituale.
Nello yoga fisico ci sono molti esercizi validi di flessione avanti, indietro e torsioni; nello yoga psicologico ci sono pratiche di concentrazione e di meditazione; nello yoga spirituale c’è il coltivare le qualità positive nella vita. Fino ad oggi molti hanno inteso lo yoga in questo modo. Ma osservando lo sviluppo e la crescita che lo yoga ha avuto nel corso dei secoli, si capisce che vi sono quattro aspetti che lo yoga ricopre nella vita di un individuo. Il primo è quello della pratica, il secondo quello del sadhana yogico, il terzo quello dello stile di vita yogico e il quarto quello dell’assimilare la cultura yogica. Se osservate lo yoga da questa prospettiva, allora potete riconoscerne l’importanza nella vita quotidiana, nell’evoluzione della vita e nella comprensione che possiamo avere dello yoga stesso. Questa comprensione è stata la visione e l’insegnamento di Swami Shivananda e di Swami Satyananda, i due maestri della nostra tradizione.
Lo yoga deve essere connesso alla vita e perciò è importante capire anche la nostra vita. Per capire la vita è utile un esempio riguardo al tempo infinito e allo spazio infinito. Il tempo infinito e lo spazio infinito sono la linea continua della vita, e su questa linea continua talvolta emergono dei picchi, e quei picchi rappresentano noi, la vita di cui abbiamo esperienza, confinata in un dato tempo e in un dato spazio. Quando quel picco torna al livello della linea retta, allora ritorna la continuità di spazio e tempo infinito. In questa linea continua di tempo e di spazio infinito noi siamo solo un picco che emerge e poi scompare. Ed è quel picco nella linea retta che rappresenta il nostro tempo, il nostro spazio e le nostre percezioni del mondo in un particolare momento: quel picco è la vita di tutti noi.
Quindi è in questa vita che noi sperimentiamo lo sviluppo o la distruzione della coscienza umana. Nel passato, i pensatori hanno considerato il ruolo della vita umana in uno schema molto ampio proprio come noi pensiamo alla nostra vita in relazione a società, posizione o status, così come si pensa a guadagni o perdite economiche. Un tempo le persone pensavano alla vita in relazione all’universo, al cosmo e alla natura divina e cercavano di scoprire le relazioni tra loro stessi come individui e queste esistenze ed esperienze universali ed allora scoprirono che il corpo e la vita umana non solo altro che un’espres¬sione di coscienza e di energia. Il corpo e i sensi diventano solo un mezzo attraverso cui la coscienza e l’energia esprimono se stesse. Il modo per arrivare alla coscienza e all’energia, il modo per risvegliare le forze e le qualità di coscienza ed energia nell’esistenza individuale furono sviluppato nei Tantra.
La parola tantra significa liberare l’energia ed espandere la coscienza. La filosofia dell’essere umano come espressione di coscienza ed energia fu sviluppata nel tantra secondo cui la realizzazione del sé o realizzazione divina o libertà sono la conseguenza di una coscienza e di un’energia risvegliate. E sono la stessa coscienza ed energia che, quando limitate dalla mente e dai sensi, diventano responsabili dell’esistenza fisica individuale.
Quindi lo yoga è emerso dal tantra come un metodo per dirigere le energie individuali, per capire e risvegliare la coscienza individuale e per comprendere e liberare le energie contenute in ciascun individuo. Dunque le basi dello yoga sono nel tantra. Lo scopo dello yoga è di lavorare con la coscienza umana, sublimare le tendenze restrittive e negative e risvegliare il campo energetico del corpo aiutando ad armonizzare il carattere umano. Lo scopo principale dello yoga è la gestione dei livelli di coscienza ed energia che siamo in grado di esprimere nella nostra vita. Ma nella metà degli anni cinquanta, quando lo yoga è apparso dal suo habitat nell’Himalaya, è stato presentato alla società come un insieme di pratiche focalizzate essenzialmente sulla forma fisica e sui limiti che il corpo può raggiungere attraverso la pratica di asana e pranayama.
All’inizio lo yoga era usato per mantenere il corpo in forma, per perdere peso o per mobilizzare le articolazioni; successivamente, con le nuove ricerche e scoperte e le nuove pratiche, lo yoga è diventato un modo per gestire lo stress. Quindi è diventato un modo per interiorizzare la coscienza e risvegliare le facoltà latenti. Con le pratiche di yoga tutti pensavano di poter raggiungere in breve tempo la realizzazione; dimenticando una cosa: che l’evoluzione ha bisogno del suo tempo. Un bambino che nasce oggi ha bisogno di molti anni per crescere, un seme piantato oggi ha necessità di molti anni per diventare un grande albero, allora come possono alcune pratiche di meditazione che voi decidete di eseguire per qualche settimana o mese portarvi allo stato di illuminazione? Purtroppo molte persone ritengono di essere divenute profeti dello yoga nel giro di una notte, ed oggi lo yoga viene visto come uno stile di vita alternativo capace di governare le influenze negative del modo di vivere attuale.
Vediamo ora le quattro diverse dimensioni dello yoga: le pratiche di yoga, il sadhana yogico, lo stile di vita yogico e la cultura yogica.
Quando iniziate a praticare yoga per una vostra necessità, per esempio soffrite di mal di schiena e volete conoscere alcune pratiche specifiche, allora utilizzate lo yoga per un vostro bisogno particolare. Può darsi che vogliate utilizzare lo yoga per gestire lo stress ed i livelli di ansia, allora potreste voler sperimentare alcune pratiche di meditazione, ne provate una, poi un’altra ancora, poi ancora una terza, e se scoprite che non avete ottenuto il risultato desiderato o che sembra troppo lontano, abbandonate le pratiche. Poi successivamente, ispirati da qualcosa o da qualcuno, riprendete le pratiche e ancora interrompete e prendete un periodo sabbatico di qualche mese. Praticare saltuariamente un po’ di meditazione o tecniche solo fisiche ed utilizzare lo yoga per necessità personali è ciò che io definisco come pratiche yogiche, l’interesse non va oltre il praticare per specifici bisogni personali. Il 90% dei praticanti di yoga ricade in questa categoria: praticano yoga perché sentono sia necessario per i loro bisogni fisici, perché si sentono più leggeri ed energici, o perché vogliono affrontare i loro stress o le ansie. Questo scopo è più o meno materiale o mondano.
Se questa è la situazione intesa come pratica yoga, cosa intendiamo con sadhana yogico? Lo yoga ha definito determinati obiettivi, il primo dei quali è l’armonia tramite la disciplina. Questo è anche il contenuto del primo sutra di Patanjali “Atha yoganushasanam”, scoprire l’armonia della natura dell’individuo attraverso la disciplina è il primo scopo. Il secondo passo dello yoga consiste nel gestire la mente, nel disciplinare la mente dissipata, chitta vritti. Il terzo obiettivo è sviluppare la consapevolezza ad un livello tale da diventare l’osservatore delle proprie azioni. Nelle prime tre affermazioni di apertura dei sutra, il Raja Yoga di Patanjali definisce questi tre primi obiettivi dello yoga. Quando praticate yoga per disciplinare voi stessi, così da sperimentare l’armonia, per gestire le modificazioni della mente o per coltivare la consapevolezza sino a diventare l’osservatore di voi stessi, allora questa pratica di yoga è chiamata yoga sadhana. “Sadhana” significa ottenere la perfezione tramite uno sforzo costante. Ottenere disciplina, gestire le fluttuazioni della mente e coltivare l’espansione della consapevolezza sono i tre scopi definiti dal raja yoga. Pochissime persone giungono a questo livello di pratica perché, in effetti, le persone non gradiscono essere disciplinate, non vogliono disciplinare loro stesse perché si ritiene che la disciplina richieda troppe restrizioni. Ma dal punto di vista yogico, la disciplina non richiede troppe restrizioni, è piuttosto una corretta sintonizzazione di noi stessi, come una radio che deve ricevere un segnale chiaro. Quando si accende per la prima volta una radio non sintonizzata su alcuna stazione si riceve solo molto rumore, lo stesso accade per la televisione e in quel caso si vede solo l’effetto neve. Immaginate un televisore che, quando acceso vi mostri i canali sovrapposti, cosa vedete? Nessun canale perché si sovrappongono uno all’altro. Ma quando la sintonizzazione è corretta allora si vede un canale, poi cambiando un altro e così via e ci sarà chiarezza di immagini e suono. Proprio come la sintonizzazione è necessaria per definire la frequenza di ogni canale, allo stesso modo è necessaria per vedere ciascuna espressione della coscienza, della mente e dell’energia individuale. Questo è il concetto di disciplina: sintonizzare noi stessi con le giuste frequenze in rapporto ai nostri pensieri, ai nostri desideri, alle nostre aspettative, alle nostre ambizioni, ai nostri bisogni, alle nostre forze e alle nostre debolezze. Quindi lo scopo della disciplina nello yoga è una corretta sintonia di questo strumento di ricezione. Perciò disciplina non significa restrizioni e sicuramente non in sanscrito perché la parola che si usa significa governare la natura sottile della personalità umana. La traduzione del concetto sanscrito di anushasanam con il termine disciplina non è corretta. Il concetto esatto è adeguata sintonizzazione delle frequenze individuali e questo accade quando siete in grado di seguire una progressione nello yoga in modo sistematico. Quando Swami Shivananda iniziò ad insegnare yoga ai suoi discepoli, circa cinquant’anni fa, diceva che nella pratica dello yoga ci deve essere una miscela di differenti tecniche. In una sessione di yoga bisognerebbe inserire cinque diversi tipi di pratiche: una di yama, una di niyama, una di asana, una di pranayama e una di concentrazione. Egli ha dato queste linee guida, e a tutt’oggi, nell’ashram seguiamo queste direttive perché lui diceva che per armonizzare la personalità dovete praticare yoga per raggiungere tutte le diverse aree di espressione. Le distrazioni e i disturbi sensoriali possono essere gestiti con la pratica delle asana, gli squilibri pranici possono essere trattati con la pratica di pranayama, le energie mentali dissipate possono essere canalizzate con le pratiche di concentrazione, creare un cambiamento nel modello di comportamento mentale, negli atteggiamenti della mente è possibile adottando e vivendo uno yama e un niyama. Quando queste pratiche sono eseguite nel modo corretto, nella giusta combinazione, allora si ottiene l’armonia fisica e psicologica e la personalità è ben sintonizzata. In relazione al concetto di sadhana è chiaro che il primo passo in questo processo è di ottenere disciplina o controllo dei processi sottili della personalità. Quando seguiamo e cerchiamo di raggiungere gli obiettivi stabiliti nello yoga allora le nostre pratiche diventano “yoga sadhana”, uno sforzo costante e continuo per raggiungere la meta stabilita dallo yoga. Prima ho detto che il 90% delle persone eseguono pratiche di yoga, del rimanente 10%, solo il 5% circa segue un sadhana yogico che implica un lavoro molto intenso su se stessi, un’osservazione costante delle proprie espressioni.
Il terzo livello è quando lo yoga diventa uno stile di vita e in questo gruppo la percentuale di praticanti si riduce al 3%. Cos’è lo stile di vita yogico? Quando iniziate ad esprimere nella vostra vita gli obiettivi e le realizzazioni dello yoga, allora la vita diventa uno stile di vita yogico. Quando iniziate a vivere i principi dello yoga e ad applicare le tecniche dello yoga per gestire le situazioni quotidiane, allora lo yoga diventa uno stile di vita. A quel punto yoga non è più un insieme di pratiche eseguite per motivi specifici o periodi specifici ma diventa un’espressione naturale della vostra vita. Ricordo che una volta avevamo un seminario per bambini dai sei anni in su, un giorno avevamo praticato pranayama e avevo detto loro: “Ogni volta che siete in pericolo trattenete il respiro più a lungo possibile e il pericolo se ne andrà.” Circa quattro giorni dopo alcuni bambini erano andati a giocare vicino ad una cisterna d’acqua ed un bambino di cinque anni cadde in acqua. Ovviamente ci furono delle grida ed io, che mi trovavo nei paraggi, li raggiunsi, saltai dentro la cisterna e lo tirai fuori. Quando emerse, il bambino sorrideva e io non ebbi cuore di adirarmi ma gli chiesi cosa avesse fatto sott’acqua e la sua risposta fu: “Stavo trattenendo il respiro”. Una semplice affermazione che però mi fece pensare. Quando un bambino sente delle istruzioni e le usa comprendendo che in una situazione difficile come quella di trovarsi sott’acqua deve trattenere il respiro, allora capisco che continuerà ad utilizzare queste istruzioni nel corso della sua vita.
Veniamo ad un esempio riguardante lo stress. Quando lo stress si accumula nella vita, allora inizia ad influenzare la mente ed il comportamento. Talvolta si manifesterà in forma di insonnia, talvolta in forma di ipertensione, ma qualunque sia la forma cosa fate? Come lo gestite? Voglio dire, sarebbe più semplice ingoiare una pillola e ritornare alla quotidianità. Se soffrite di ipertensione prendete una pillola per ridurla, se soffrite d’insonnia prendete un sonnifero, questo è quello che le persone fanno generalmente. Ma se nella vostra vita avete lo yoga e con bhramari pranayama siete in grado di gestire il vostro stress, non avete bisogno di medicine per gestirne gli effetti. Allora quali possibilità ci sono per una persona in grado di usare lo yoga per gestire lo stress? Per esempio, se è in ufficio, può andare al bagno, chiudere la porta, sedersi e praticare bhramari per dieci volte, ritornando poi al lavoro. Oppure la sera, una volta rientrata a casa, anziché sedersi con un bicchiere di birra, può praticare yoga nidra per dieci o quindici minuti prima di rapportarsi agli altri. In questo modo, se usate lo yoga nei diversi momenti della giornata, potrete gestire lo stato del corpo e della mente e superare molti disturbi fisiologici e psicologici creati dallo stress.
Così lo yoga diventa uno stile di vita e non qualcosa che viene praticato un’ora al mattino oppure in un centro il martedì o il venerdì col vostro insegnante di yoga. Potete utilizzare lo yoga ogni momento per gestire le diverse situazioni che dovete affrontare; per esempio nel traffico cittadino userete una profonda respirazione addominale, pranayama può essere praticato in ufficio o nel bagno dell’ufficio (se è pulito), yoga nidra può essere praticato al pomeriggio o la sera per allentare gli stress accumulati. Cinque minuti di consapevolezza del respiro possono essere praticati in ufficio per liberare la mente da stanchezza e confusione. In questo modo lo yoga diventa parte del vostro comportamento naturale nella vita, e questo è lo stile di vita yogico: quando iniziate ad applicare, ad utilizzare le pratiche di yoga nelle attività e nella routine quotidiana. Quando l’utilizzo dello yoga nella vita quotidiana diventa più spontaneo, allora la mente, il comportamento e l’atteggiamento riflettono la consapevolezza yogica. Questo riflesso, questa espressione della consapevolezza yogica è conosciuto come cultura yogica e circa il 2% delle persone raggiunge questo livello.
Durante questo incontro desidero presentare lo yoga in questo modo: come pratiche, come sadhana, come stile di vita e come cultura yogica, perché in definitiva dobbiamo riuscire a nutrire la nostra personalità e la nostra natura. Una volta che riusciamo a riconoscere il ruolo dello yoga nella nostra vita, allora potremo realmente apprezzarlo.
Per questo iniziamo il primo stadio con le pratiche di yoga. Quali sono le cose che possiamo praticare? Hatha yoga e alcune parti del raja yoga. Hatha yoga e raja yoga costituiscono un sistema completo per il primo livello di pratiche yoga.
Oggi parlerò in breve solo di hatha yoga e raja yoga riferendomi alle pratiche. In occidente hatha yoga è generalmente considerato uno yoga fisico e raja yoga è considerato parte dello yoga mentale, ma hatha yoga non è fisico e raja yoga non è mentale. Sono pratiche che inducono un cambiamento nel normale comportamento del corpo. Sono pratiche che apportano un cambiamento nelle condizioni normali di funzionamento dell’energia, dei muscoli e degli organi.
Hatha yoga è lo yoga che equilibra le forze solari e lunari nel corpo; la forza solare è nota come prana shakti e l’energia lunare è nota come chitta shakti. Prana shakti, o energia solare, è responsabile del movimento del corpo e del funzionamento degli organi di senso. Chitta shakti è responsabile del funzionamento della mente e di tutte le diverse facoltà mentali. Lo scopo dell’hatha yoga è la gestione di queste forze, perciò nello schema tradizionale dell’hatha yoga l’enfasi era sulle principali pratiche di purificazione e disintossicazione del corpo. Queste diverse tecniche dell’hatha yoga purificano e disintossicano il corpo dalla bocca all’ano e questo serve a riattivare il flusso di prana shakti nel corpo, risvegliare i diversi centri psichici o chakra e stimolare la secrezione degli ormoni della ghiandola pineale e pituitaria. Questo è il campo d’azione dell’hatha yoga.
Dunque la combinazione di posture fisiche, tecniche di purificazione e attivazione dei chakra costituiscono l’hatha yoga. Il raja yoga tende a gestire le influenze sottili, i comportamenti sottili mentali ed esteriori. Nei prossimi giorni praticheremo alcune delle più utili ed importanti tecniche di hatha yoga e raja yoga nelle sessioni del mattino per avere un’esperienza di yoga pratico che combina hatha e raja yoga.
Raja yoga comprende cinque stadi principali. Naturalmente il significato di raja yoga è yoga degli otto passi, o otto membra, ma questi otto stadi in realtà controllano il comportamento e l’espressione di corpo, energia, mente, comportamento e atteggiamento. Se osservate le asana del sistema di raja yoga notate che Patanjali ha definito come asana una postura comoda e stabile. Voi siete seduti su una sedia, ma è un’asana? Siete comodi e immobili, forse avete le gambe incrociate come me, ma è un’asana? Ieri attraversavo Piazza San Marco e ho visto un giovane immobile, nella posizione di Cesare, era forse un’asana dato che era comodo e immobile? Voglio dire che asana è quella posizione in cui siete a vostro agio con voi stessi, cioè il corpo deve arrivare al punto di sentirsi perfettamente comodo e a suo agio praticando quella postura. Quando il corpo arriva a quel punto di comodità e naturalezza, quando tutti gli squilibri fisici, i limiti, le tensioni e lo stress sono scomparsi, la quiete del corpo è il sintomo di un’adeguata armonia. Quindi questa perfetta armonia del corpo è il risultato della pratica di asana.
Un’altra componente del raja yoga è il pranayama, la componente della struttura energetica, il cui obiettivo finale è equilibrare le energie. Poi c’è la gestione della mente tramite pratyahara, dharana e dhyana con la sublimazione graduale da uno stato più grossolano al più sottile e poi al trascendentale.
L’atteggiamento individuale è regolato attraverso yama per giungere ad una adeguata condotta personale. Il comportamento sociale può essere modificato con la pratica di niyama. Quindi le basi di hatha yoga e raja yoga sviluppano la personalità a livelli più elevati sia sotto l’aspetto fisico che mentale.
Per concludere, lo yoga è un argomento molto vasto e nei prossimi giorni discuteremo, praticheremo e sentiremo conferenze sulle applicazioni dello yoga nella vita quotidiana per migliorare la qualità della nostra vita. Queste pratiche offrono una speranza per migliorare la nostra vita, non è necessario diventare uno yogi, ma è importante connettersi con le qualità inerenti alla nostra vita, e la connessione con queste qualità latenti è ciò che ci renderà esseri umani illuminati e realizzati.
Voi dovete mettere il vostro sforzo nel trasformare il deserto della vostra vita in un giardino fiorito. Una volta un uomo acquistò un pezzo di terra arido. Al momento dell’acquisto non c’erano altro che pietre e sterpi secchi. Lavorò molto e lo trasformò in un meraviglioso giardino. Quando il giardino fu completato, molte persone andarono ad ammirarlo. Un giorno arrivò un sacerdote e fu così entusiasta nel vedere quella meravigliosa fioritura che esclamò: “La creazione di Dio è meravigliosa, guardate che splendido giardino ha creato!” Ma l’uomo replicò: “Mi spiace, ma non è Dio che ha creato questa meraviglia, sono stato io. Avresti dovuto vedere questo pezzo di terra quando Dio era il proprietario. E adesso che io sono il proprietario l’ho reso un giardino”. Allo stesso modo anche voi potete cercare di trasformare la vostra vita in uno splendido giardino di cui essere orgogliosi con l’applicazione, la saggezza e la creatività dello yoga.
Nei prossimi giorni cercheremo di attrezzarci con gli strumenti adeguati per apportare questi cambiamenti in un pezzo di terra arido e trasformarlo in un bellissimo giardino.

Hari Om Tat Sat

Un’Introduzione a Tattwa Shuddhi

Tratto da Sw. Satyasangananda Saraswati, “Tattwa Shuddhi”, ed. Yoga Publications Trust, Munger, Bihar, India.

Oggi lo yoga è praticato quasi in ogni parte del mondo, ma in realtà non vediamo alcuna trasformazione nella coscienza degli uomini. Dov’è l’errore? È nella pratica in se stessa? Probabilmente no, perché possiamo citare parecchi casi in cui ha avuto successo. È più probabile che l’errore stia nel modo in cui pratichiamo il nostro sadhana poiché facciamo un po’ di questo e un po’ di quello, ogni volta che ci preoccupiamo di praticarlo. Per accostarci allo yoga in modo equilibrato, dobbiamo prestare maggiore attenzione alla filosofia e alle pratiche del tantra, che è la fonte dello yoga.
È inutile dare solo un’occhiata superficiale ad una materia vasta come il tantra, che ha esaminato l’esistenza da ogni punto di vista. Attraverso questo studio approfondito dello schema della creazione, della sua manifestazione, del suo principio di causa ed effetto in relazione all’individuo, i tantrici hanno scoperto l’anello mancante che unisce l’individuo al cosmo.
Dopo aver capito come colmare la lacuna, i tantrici idearono dei metodi e delle pratiche per guidare gli altri. Anche se questi metodi sono antichissimi, essi hanno superato la prova del tempo poiché si basano sulla necessità dell’esperienza interiore per l’evoluzione dell’individuo; non conoscenza limitata, ma esperienza viva e vera.
I metodi del tantra sono molto precisi e sistematici. Le pratiche sono collegate in modo tale che il traguardo del samadhi non sembri una possibilità remota, ma una realtà che si può raggiungere qui ed ora se si desidera. Il desiderio del samadhi è essenziale, poiché senza un desiderio ardente non vi si può arrivare. Si deve essere completamente assorbiti e sommersi da questo desiderio cosicché nessun altro pensiero possa esistere o disperdere le energie e le forze concentrate della mente. Il samadhi, dice il tantra, può essere conseguito solo se ci si preoccupa di guardare all’interno invece che all’esterno. Tuttavia per sviluppare l’arte di guardarsi dentro, si devono seguire le pratiche che sono state ideate dal tantra proprio per questo scopo.
Perciò il tantra dà maggiore importanza alla pratica che non alla filosofia che ne sta alla base. Molti tantrici esperti non si rendono neppure conto delle filosofie altisonanti celebrate nelle varie traduzioni o commenti del tantra, perché non sono attratti o colpiti dalla filosofia pura e semplice, ma dalla trasformazione della coscienza attraverso il suo esporsi ad ogni livello d’esperienza.
Quindi, per comprendere il tantra, si dovranno approfondire le pratiche e non solo cercare di capirlo attraverso i frammenti di un’informazione di seconda mano. Sperimentatelo personalmente e poi esprimete il vostro giudizio.
A questo scopo dovrete seguire scrupolosamente i procedimenti indicati dal tantra dal principio fino alla fine. Potete realizzare veramente poco se vi tuffate in un lago e non sapete nuotare. Allo stesso modo è consigliabile scegliere il sadhana non sulla base dei desideri personali, ma su quella della crescita e dell’evoluzione personale, così da non correre il rischio di affogare.
Ad esempio, vama marga, kundalini yoga, ecc. forse vi appaiono attraenti ed eccitanti ma, a meno che non vi sia una base solida la vostra pratica non approderà a nulla. Il tantra chiama “shuddhi” o purificazione la base di tutto il sadhana.
Tuttavia a questo proposito, il tantra discordava da altre filosofie, perché ciò che le altre filosofie definivano come peccato, il tantra lo definiva come esperienza necessaria alla crescita. Il tantra dice: utilizza le forze della passione, della collera, della gelosia, della colpa, della vergogna, dell’odio, ecc. unendole con i loro opposti. Solo allora puoi sperimentare l’unità. Se fai cattivo uso di queste forze, creando una separazione dai loro opposti, allora il divario aumenta e l’unità diviene impossibile. Quindi il tantra parla di purificazione, dando a questo termine un significato diverso. Purificazione implica la liberazione dell’energia dalla materia, in modo che l’energia possa unirsi alla coscienza.
Per giungere alla purificazione il tantra si è valso di vari metodi che vanno dal livello di purificazione grossolano a quello sottile e causale. Tattwa shuddhi, che fa parte di queste pratiche, spicca per l’efficacia della purificazione che produce ad ogni livello, e si è rivelato uno dei sadhana più importanti che un discepolo deve sperimentare nel suo viaggio dal mondo esterno a quello interiore.
Senza il processo di purificazione che si ottiene attraverso tattwa shuddhi, le pratiche esoteriche più elevate conducono all’oscurità e alla disperazione. Il perché è molto semplice da capire. Vama marga, kaula marga, smashan sadhana, shyama sadhana o kundalini yoga, ecc. richiedono un livello di concentrazione molto profondo, che può essere raggiunto solo quando la mente ha trasceso la materia e vibra alla frequenza sottile dell’energia pura. Dovete essere così bravi nel raggiungere questo stato, che il conseguirlo sarà facile come premere un pulsante. Solo allora potrete sperare di padroneggiare le esplosioni interne che si verificano come conseguenza delle pratiche. In caso contrario rimarrete allo stadio della consapevolezza materiale oppure, se trascenderete la materia mentre ancora agite attraverso la mente grossolana, le esperienze che ne conseguiranno saranno probabilmente la causa di gravi scompensi nella personalità.
La purificazione deve avvenire non solo per quanto riguarda il sadhana, ma anche per un’armoniosa vita sociale. Le preoccupazioni quotidiane tormentano la mente dell’uomo ed egli non riesce a tener loro testa. Oggi l’uomo è all’apice della tensione mentale perché è incapace di comprendere i meccanismi della mente.
Se domandate ad una persona media: “Che cos’è la mente?”, direbbe che la mente è il pensiero. Egli non può nemmeno concepire che la mente possa essere qualche altra cosa oltre la sua costituzione psicologica. Non sa che man mano che si va più in profondità potete scoprire che nascosto all’interno di queste facoltà risiede il potere potenziale di creare e distruggere. Potreste mai credere che la stessa mente che causa tanti conflitti nella vostra vita, possa creare un intero universo? Che proprio dallo stesso ego che è causa del dolore e del tormento dell’attaccamento, possa esplodere l’esperienza dell’unione e dell’armonia? Che assopito dentro di voi vi sia tutto il mistero del viaggio della vostra vita, dall’unità alla diversità? Che esista in voi una mente superiore che è il riflesso della coscienza pura ed incontaminata? Il sadhana di tattwa shuddhi fa sì che il potere interiore della mente si configuri come un ponte potenziale attraverso cui l’aspirante possa lentamente passare dalla transitorietà dell’esperienza oggettiva alla stabilità della realtà interiore.
Essenzialmente tattwa shuddhi è un sistema il cui scopo è purificare la totalità dell’essere umano. Inizia con una forma grossolana di purificazione e procede verso la purificazione sottile e psichica che culmina nella consapevolezza sottile che prepara l’aspirante all’esperienza dell’energia e della coscienza dalla quale si è evoluto. Quando si pratica lo yoga per un lungo periodo di tempo, si ha un lieve risveglio di shakti, o energia, che può essere avvertito ai livelli psichici del corpo e della mente. Comunque, tattwa shuddhi concentra questo risveglio di energia e lo canalizza dandogli una forma, modificando così la consapevolezza di base.
Tattwa shuddhi ha un ruolo primario non solo per quanto riguarda le pratiche connesse allo sviluppo mentale, psichico e spirituale, ma anche per quanto riguarda le pratiche che interessano i processi curativi e di guarigione. Se tattwa shuddhi fosse praticato prima di hatha yoga e delle pratiche di yoga-terapia, i risultati sarebbero più rapidi e più duraturi. I praticanti di hatha yoga devono capire che il corpo di cui si occupano è un aggregato ed un composto di cinque tattwa, o elementi, e che per questo motivo tattwa shuddhi ha un’influenza diretta sugli effetti degli shatkarma. Gli shatkarma sono metodi di purificazione del corpo, ma esercitano un influsso soltanto sui triplici umori del corpo. Il loro effetto non si estende agli strati più sottili e più profondi, raggiungibili da tattwa shuddhi.
Tattwa shuddhi è la base di ogni sadhana poiché completa la maggior parte del lavoro preparatorio. Proprio come un contadino dissoda il terreno, lo concima adeguatamente e poi sparge i semi, similmente l’aspirante prima prepara la mente e il corpo attraverso tattwa shuddhi, quindi sviluppa la ricchezza della sua esperienza interiore.

Yoga Sutra di Patanjali

Tratto da: Sw. Satyananda Saraswati, “Four Chapters on Freedom – Commentary on Yoga Sutras of Patanjali”, ed. Yoga Publications Trust, Munger, Bihar, India.

II Capitolo: Sadhana Pada

Sutra 1: Disciplina per il sadhana

Tapahsvadhyayeshvarapranidhanani kriyayogah

Tapah: austerità; svadhyaya: studio di se stessi, studio delle scritture; ishvara pranidhana: arrendersi a Dio; kriya yoga: yoga pratico

Tapas, swadhyaya e Ishwara pranidhana costituiscono lo yoga pratico.

Letteralmente la parola tapas vuol dire bruciare, creare calore o produrre energia. In genere tapas è tradotto come ascetismo, austerità o penitenza, ma in realtà indica un processo che illumina completamente le imperfezioni, le scorie della personalità interiore. Nella Bhagavad Gita si dice che il fuoco di gyana brucia l’intero insieme dei karma, ovvero brucia i karma accumulati, i karma attuali e i karma già espiati. Nagarjuna dice che un seme, quando non è bruciato, è capace di dar vita a molti semi e piante. Allo stesso modo, quando chitta non è libera dai samskara, è capace di produrre molti altri samskara, corpi e reincarnazioni. Un seme arrostito o bruciato diventa incapace di riprodursi. Questo processo è tapas, che implica una forma di autopurificazione.
A volte l’impurità è piccola e necessita un lavaggio leggero, ma quando è presente troppa avidya, diventa necessario mettere le impressioni materiali in un fuoco. Tapas è un sadhana che ripulisce una mente estremamente sporca piena di avidya. Tapas vuole anche dire conservazione del calore e dell’energia. Crea anche calore fisico, come nel pranayama. Qui la parola tapas è usata in un contesto molto elevato. Nel sutra 32 di questo capitolo, incontreremo di nuovo la parola tapas e se ne parlerà considerandola una forma di sadhana elementare. In questo sutra la parola tapas non è usata nel senso di austerità o penitenza, ma nel senso di generare un tipo particolare di calore. Questo calore può essere generato con il pranayama, l’hatha yoga, i mudra, i bandha, la concentrazione mentale, brahmacharya e ahimsa. Non si tratta solo di calore fisico, è anche calore pranico, mentale e spirituale, che ha una natura psichica.
Quando si vuole eliminare una cattiva abitudine, più si desidera farlo, più questa diventa potente. Se la si abbandona da svegli, ritorna in sogno. Se smette di apparire in sogno, si esprimerà nel nostro comportamento, altrimenti farà insorgere una malattia. Questa particolare abitudine deve essere distrutta a partire dalla sua radice psichica, non solo a livello conscio. Anche il samskara o complesso deve essere eliminato. Per questo è necessario un tipo di attività psichica come il pranayama o ahimsa che possono sradicarlo fin dagli strati del subconscio. La parola tapas dovrebbe essere intesa in questo senso.
Allo stesso modo anche la parola swadhyaya ha bisogno di una spiegazione. Etimologicamente vuol dire analisi o studio di se stessi, ma è usata per indicare lo studio delle scritture come la Bhagavad Gita o la Bibbia e questo è il significato che assume nel sutra 32. Qui significa cercare di percepire se stessi sotto prospettive diverse. Quando ci guardiamo il naso o i denti allo specchio, ciò è chiamato adhyaya della propria faccia, cioè studio dettagliato. Allo stesso modo swadhyaya vuol dire studio dettagliato di se stessi, che comprende lo studio dell’intera struttura della nostra personalità, con gli aspetti fisici, mentali, emotivi e spirituali. Nel kriya yoga le varie pratiche conducono alla percezione del sé, è il procedimento di visione della propria coscienza. Se cerchiamo di visualizzare un odore psichico, percepiamo noi stessi in forma di odore. In swadhyaya si guarda la propria coscienza. Perciò, in questo sutra, swadhyaya non vuol dire studio delle scritture o pratica di japa. Rishi Patanjali usa la stessa parola in sutra differenti, ma con significati diversi.
La stessa cosa vale per Ishwara pranidhana. In genere significa arresa a Dio, ma qui vuol dire risiedere completamente nella consapevolezza più interiore, cioè riporre o fondere completamente la nostra coscienza con la consapevolezza interiore. Ishwara è la consapevolezza interiore. Non è un sé personale fuori di noi. È in noi e noi abbiamo il kriya yoga, in cui la mente è posta completamente a disposizione del sé interiore. Kriya yoga vuol dire yoga pratico, yoga con tecniche pratiche. Include azioni di autopurificazione, autosservazione e sviluppo della consapevolezza di se stessi. Queste tre azioni costituiscono il kriya yoga. Si può anche spiegare dicendo che vi sono dei kriya che producono e conservano il calore, che implica la consapevolezza del sé, e kriya attraverso cui la mente è posta a disposizione della consapevolezza interiore. Il kriya yoga è uno dei metodi del raja yoga. Poiché non era consuetudine scrivere riguardo al kriya yoga, Patanjali gli ha dedicato solo un sutra.

Sutra 2: Il perché della disciplina

Samadhibhavanarthah kleshatanukaranarthashcha

Samadhi: samadhi; bhavanarthah: per sviluppare lo stato di; klesha: causa di afflizione; tanu: ridurre; karanartha: per fare; cha: e

Per sviluppare la coscienza del samadhi e allo scopo di ridurre la causa delle afflizioni (si pratica kriya yoga).

Il kriya yoga si pratica allo scopo di sviluppare il samadhi e ridurre i klesha. Non è necessario parlare ora del samadhi. È uno degli scopi del kriya yoga. Il secondo scopo è superare i klesha. Le cause delle afflizioni vengono gradualmente diminuite e per questo si pratica kriya yoga. Questo è il duplice scopo del kriya yoga. Sembra che con la pratica del kriya yoga si raggiunga uno stato emotivo di samadhi chiamato trance. Questo samadhi è completamente differente da quello sviluppato dai bhakta con un’intensa bhakti o intonando canti devozionali. È sempre uno stato di fusione, ma è una fusione sublimata su di un piano emotivo. Può darsi che con il kriya yoga il corpo fisico, psichico ed emotivo si modifichino molto. Di conseguenza l’intera struttura di samadhi è su di un livello differente. Con il kriya yoga i klesha sono rimossi e dunque si può accedere facilmente allo stato superiore di samadhi.

Sutra 3: Le cause del dolore

Avidyasmitaragadveshabhiniveshah kleshah

Avidya: ignoranza; asmita: senso dell’io; raga: attrazione; dvesha: repulsione; abhiniveshah: paura della morte; kleshah: afflizioni

Ignoranza, senso dell’io, attrazione, repulsione e paura della morte sono le afflizioni.

Nel primo capitolo, le chitta vritti erano divise in dolorose e non dolorose e si era utilizzata la parola klesha affermando che si rimuovono col samadhi. Ora il rishi dà i dettagli dei klesha. A causa delle tendenze materialistiche, l’uomo pensa che le sofferenze dell’io siano le uniche sofferenze. I filosofi e gli psicologi hanno cercato di scoprire le basi della sofferenza e riscontrando che questa non è radicata nella mente presente, ma molto indietro nel passato. I klesha sono un tipo di sofferenza interna al nostro vero essere. Ognuno sente un dolore subconscio, ma le nostre attività quotidiane superficiali non ci permettono di rendercene conto, altrimenti vedremmo il dolore in tutta la sua intensità. È difficile comprendere che l’uomo esteriore è diverso dall’uomo interiore. La psicologia del profondo dice che ci sono diverse fasi nella vita umana e che l’io interiore si comporta in maniera totalmente differente. Mentre un uomo dice la verità esternamente, a livello interiore mente. I movimenti dell’uomo esteriore e di quello interiore sono opposti. I praticanti di yoga devono sapere che la psicologia del profondo ci dice che la felicità reale non è a fior di pelle. La vita interiore può essere molto diversa da quella esteriore, perciò non possiamo giudicare da quest’ultima. Anche un uomo ricco e colto può essere molto infelice dentro, mentre un povero senza ricchezze può avere la felicità interiore o essere in uno stato di beatitudine. La spiegazione di Patanjali dei klesha deve essere intesa dal punto di vista della psicologia del profondo. In genere non siamo consapevoli della paura della morte, ma essa è nel nostro subconscio. C’è paura quando si deve subire un’operazione. Questa paura è abhinivesha, la paura della morte. È una reazione riflessa, come quando un uomo che sta camminando si sposta automaticamente se sbuca improvvisamente un’auto. Non è consapevole della paura della morte, ma cambia strada. La paura della morte è alla radice. Anche gli animali hanno i klesha.

La Dea Interiore

Tratto da Sw. Muktananda, “Nawa Yogini Tantra”, ed. Yoga Publications Trust, Munger, Bihar, India.

Astarte, la Grande Madre, amava ardentemente il proprio figlio Tammuz, il Verde, la vegetazione che riveste la terra. Affascinata dalla sua bellezza e desiderandolo per se stessa, la regina del Mondo Sotterraneo un giorno rapì Tammuz e lo portò nel proprio regno.
Astarte gemeva e si lamentava. Il suo volto si raggrinzì e la carne divenne flaccida. Inconsolabile, si legò i capelli e prese a vagare per tutto il mondo in cerca del figlio, ma egli non poteva essere trovato in nessun luogo di questo mondo.
Dopo un certo tempo il sole fu preso da pietà per Astarte e le rivelò il segreto di dove fosse il figlio. La Grande Dea fu molto addolorata, ma non si arrese. Nella sua collera scagliò una tremenda maledizione su tutta la terra: “Che tutto il genere umano perisca! Che non ci sia più pioggia, calore, raccolti se non mi sarà restituito mio figlio”. Dato che era una dea molto potente, i suoi desideri erano ordini, e tutta la terra divenne fredda e sterile.
Mentre la terra avvizziva, Astarte intraprese il suo arduo viaggio. Bussò in modo forte e insistente all’infausto portale d’ingresso al Mondo Sotterraneo, dove gli avidi custodi le chiesero la sua corona come pedaggio. Ella gliela diede. Attraverso le tenebre e l’aria viziata, incontrando esseri misteriosi e grotteschi, realizzò la difficile e tortuosa discesa al centro del Mondo Sotterraneo. Ad ognuno dei sei cancelli rimanenti che dovette passare per raggiungere la meta, il custode le chiese un dono che lei concesse senza darsi cura del valore. E quando varcò l’ultimo cancello era nuda.
Nuda si confrontò con la Regina del Mondo Sotterraneo in contesa per la vita del figlio. Sopra e sotto tutta la terra era silente poiché le forze della luce e del buio, della vita e della morte, erano impegnate in questa prova di forza.
Alla fine Astarte vinse e il figlio le fu reso. Tammuz rinacque al mondo della luce, portando gioia nella celebrazione della primavera.

Il Mito…

Con l’ambiguo linguaggio del mito noi comunichiamo dei saperi che sappiamo veri in modo intuitivo, dando espressione a esperienze troppo profonde per una comprensione logica. Il mito di Astarte può essere letto in molti modi, ma secondo una interpretazione è la storia di ogni ricercatore spirituale. Il desiderio di Astarte di essere riunita a Tammuz è l’impulso profondo di noi tutti di unirci nuovamente alla coscienza suprema. Il suo viaggio nel Mondo Sotterraneo indica l’esplorazione delle profondità del nostro essere che dobbiamo intraprendere per raggiungere lo scopo. La contesa tra le forze della luce e delle tenebre è la lotta che ha luogo in ogni anima. La Regina del Mondo Sotterraneo è la potenza dell’ego che vorrebbe imprigionarci per sempre nell’ignoranza. I sette custodi sono le prove e le difficoltà della vita di tutti i giorni che, affrontate con un giusto atteggiamento, ci aiutano a liberarci dagli attaccamenti e dalle negatività. I sette cancelli sono i sette chakra, e la risalita di Astarte e Tammuz nel mondo della luce è la nostra rinascita alla coscienza superiore.
I miti emergono dall’inconscio collettivo, che è il magazzino dell’intera esperienza della razza rispetto alla vera natura della donna. Questo livello del nostro essere salda assieme i complementi e le contraddizioni che sfuggono a una spiegazione intellettuale, e forgia i simboli che ci influenzano da oltre il regno della coscienza in stato di veglia. I miti stimolano le persone e servono da linea guida per la crescita personale. Questo mito di Astarte è importante per tutte le donne. Sebbene “donna tra le donne” Astarte è esempio di coraggio, determinazione e potere personale. È addolorata per la perdita del figlio, ma non si lascia sovrastare dallo sconforto. Non se ne sta passivamente seduta a soffrire, ma fa tutto ciò che può per porre rimedio alla situazione. Sebbene ami, non si lascia indebolire dall’amore. Astarte è intrepida nelle difficoltà del suo viaggio, e per tutto il tempo mostra il coraggio e la determinazione di cui abbiamo tutte bisogno per vedere noi stesse con chiarezza. La grande Dea è l’incarnazione soprannaturale delle forze creative dell’universo, e ispira il genere umano ad adorarle fin dalle origini della razza.

…e il simbolo

Negli ultimi decenni gli archeologi hanno raccolto un’enorme quantità di prove che indicano che il culto della Grande Madre svolgeva un ruolo importante nella vita dei nostri antenati dell’età della pietra, come ancora avviene in India, in Africa e in altre parti del mondo. Questo fatto ha un riflesso non solo nelle pitture delle caverne, ma anche in numerose statue e raffigurazioni di donne scolpite in pietra, ossa, corna e perfino zanne di mammut. Alcune di queste risalgono a più di 25.000 anni fa, e sono dieci volte di più di analoghi intagli raffiguranti uomini. Anche se molte di queste figurine rappresentano donne nude, in genere non vengono considerate erotiche o soltanto arte di per se stessa. Per molte ragioni gli antropologi hanno concluso che fanno parte di una tradizione magica o religiosa. Molte sono altamente stilizzate e simboliche, e pongono un’enfasi particolare sul seno, sulle natiche e sui genitali, facendo pensare che la Dea fosse considerata come infinitamente fertile, ovvero la creatrice suprema.
Questa tradizione, non solo è antica come la razza stessa, ma sembra essere stata praticata quasi in modo universale. Rappresentazioni della Dea sono state ritrovate in Spagna, Francia, Germania, Austria, Cecoslovacchia e Russia. Appaiono anche in Turchia, lungo tutto il corso dei fiumi Tigri ed Eufrate, in Egitto e, naturalmente, in India. Dall’altra parte del mondo, tra gli aborigeni australiani, il cui patrimonio culturale è rimasto pressoché immutato dall’Età della Pietra, la divinità del tempo del Sogno era femminile. Assieme a qualche altro popolo primitivo, essi non comprendevano la paternità biologica e non accettavano la nozione di un necessario collegamento tra l’unione sessuale e il concepimento. La donna era onorata come datrice di vita, e il ruolo dell’uomo non era collegato con il concepimento della vita. In questo modo la donna era onnipotente; era lei e solo lei che possedeva il dono di dare nuova vita al mondo. Perfino in tutta l’area ora conosciuta come Terre Bibliche, la terra degli Ebrei, i più comuni oggetti rituali dell’Età del Bronzo (1500-1300 a.C. circa) sono placche raffiguranti la Dea Astarte. Oggetti uguali o simili si ripresentano in piena epoca biblica.
Adorata in molti paesi, la Dea era conosciuta anche con molti nomi. Era Iside in Egitto, Nana in Sumeria, Isthar a Babilonia, Ashtoreth o Astarte in Assiria, Afrodite in Grecia, Venere a Roma. In Cina è Teh, che rivela il Tao, e nella tradizione tantrica dell’India è Shakti o Devi. Al di là del nome che usavano, i popoli di queste regioni adoravano il principio supremo in forma di Dea Madre.
Non dobbiamo commettere l’errore di associare il culto della Grande Dea solo alle fasi primitive dell’umanità. La Dea aveva sede anche tra le comunità del bacino del Mediterraneo, nel Vicino e Medio Oriente e in India: di fatto tutta l’area che è stata riconosciuta come “la culla della civiltà”. Fu in queste terre che l’umanità progredì dalla semplice caccia all’allevamento di bestiame e all’agricoltura. Ed è qui che si sviluppò la scrittura – tutto sotto gli auspici della Grande Dea.
Sumeria precedette Babilonia come grande cultura urbana di questa regione; abbiamo prove che risalgono al 3000 a.C. circa che la Dea era venerata in un tempio al cui servizio c’erano quasi esclusivamente sacerdotesse. Il tempio era l’istituzione chiave delle prime civiltà. Sembra che avesse un proprio territorio, mandrie e molti possedimenti. I Sumeri attribuivano l’invenzione delle tavolette d’argilla e dell’arte della scrittura alla Dea e i primi esempi di scrittura conosciuti furono trovati nel tempio della Regina del Cielo a Erech in Sumeria. La civiltà minoica a Creta fu una delle più avanzate della preistoria, sia a livello materiale (avevano perfino stanze da bagno in casa e acqua corrente) sia a livello culturale (influenzando lo sviluppo della posteriore cultura greca). Anche i Minoici adoravano la Dea sotto la forma di una donna dalla vita sottile, col seno nudo e ornata di serpenti. Nessuno metterebbe in dubbio la superiorità della civiltà egiziana, dove si credeva che la Dea esistesse quando nessun altro era ancora stato creato. Senza dubbio fu lei che insediò nel cielo Ra, il dio Sole, la divinità del Faraone. La civiltà cominciò e fiorì tra quelle società che riverivano la Grande Dea in qualità di suprema creatrice.
I miti e i rituali concernenti la Dea sorgono dall’inconscio collettivo e riflettono la comprensione intuitiva di tutta la razza umana rispetto all’origine della creazione e alle forze che agiscono nel cosmo. Una qualche visione conscia di queste intuizioni può essere ricavata dalle scritture e dai rituali che sono sopravvissuti dal passato.

Ci sono infinite prove scritte pervenuteci dalle pietre e dalle tavolette d’argilla di varie società antiche dell’Egitto, del Medio Oriente e da più lontano, come dalla Cina e dall’Africa. Esse testimoniano l’imponente potere della Dea, che era considerata l’incarnazione sovrumana dell’energia creativa dell’universo. Una tavoletta proveniente da Tebe in Egitto (1400 a.C. circa) dice: “All’inizio c’era Iside; la più vecchia dei vecchi. Lei è la Dea da cui sorse tutto il Creato. Lei è la Grande Signora delle due Terre d’Egitto, Signora della Protezione, del Cielo, della Casa della Vita, del Mondo Divino. Lei era l’Unica. In tutte le sue grandi e meravigliose opere Lei fu una saggissima maga ed eccelse più di ogni altra divinità”.
Presso i Babilonesi (1800-700 a.C.) Isthar era “Colei che cammina nel terribile Caos e apporta la vita con la Legge dell’Amore, e dal Caos ci porta l’armonia”.
La seguente litania tratta dal Durgashatanamastotram recitata in India è rappresentativa degli epiteti attribuiti alla Dea laddove era venerata: “La Pura – Essenza di tutto – Conoscenza – Azione – la Suprema – Datrice della sapienza superiore – l’Artefice di tutto – Colei il cui amore è infinito – Esistenza – Detentrice di molte armi – Vergine – Fanciulla – Giovane – l’Ascetica – Antica Madre – Datrice di forza”.
I simboli visivi della Dea sono molto eloquenti come testimonianza del suo poliedrico potere creativo. Un medaglione d’oro trovato nel Vicino Oriente ha inciso sopra una bella donna che tiene un loto, simbolo della forza vitale cosmica presso i Fenici, gli Egiziani e gli Indiani. È simile a molte placche dell’età del bronzo che rappresentano Astarte come una donna nuda con uno stelo di giglio o, in certi casi, un serpente. La famosa statua della Venere di Willendorf ha un enorme ventre gravido e seni gonfi tipici di molte rappresentazioni di Venere trovate in Europa che richiamano la fecondità creatrice. Diana di Efeso, la Dea pagana denunciata da San Paolo nella sua Lettera agli Efesini, è rappresentata come una donna sensuale con cento seni, simbolo di nutrimento amoroso e abbondanza. Tutte queste sono manifestazioni della Grande Dea nel suo aspetto di Madre Terra; ella dà la nascita e nutre ciò che è nato. Tutte le divinità come Demetra e Iside hanno in comune questo tipo di energia. La sua rappresentazione è quella di una gioiosa cornucopia (il Corno dell’Abbondanza).

Forza per l’evoluzione

Il cosmo non è né semplice né immutabile, ogni riflesso genera una rifrazione che, a volte, ne rivela un altro aspetto.
Rendendosi conto del potere distruttivo dell’universo, della capacità di dissoluzione e riassorbimento, il genere umano ha pagato anche un tributo alla Dea in forma di dispensatrice di morte. In questo aspetto è ritratta terrificante e orribile, in genere con la lingua tesa fuori. Un esempio è Medusa, che trasformava gli uomini in pietra se osavano guardarla direttamente negli occhi; la terribile concentrazione del suo potere era simboleggiata dalla sua chioma serpentina. Fa venire in mente la messicana Coatlicue che per uccidere è vestita con una gonna di serpenti attorcigliati. Altre Madri di Morte sono Lilith ed Ecate che sono diventate la personificazione delle streghe malvagie che si occupano di magia nera piuttosto che bianca.
Infatti neppure la natura o il sovrannaturale sono categoricamente neri o bianchi, e ci sono altre dimensioni di potere personificate in varie Dee. Un rilievo di pietra del Medio Oriente mostra una donna con quattro braccia seduta a cavallo di una tigre: simboleggia il suo dominio sulle passioni violente della nostra natura inferiore. Questa rappresentazione è molto vicina ai ritratti della divinità indiana Durga, che ha anch’essa quattro braccia, è vestita di color rosso sangue e cavalca, a torso nudo, un leone.
Prove di questo tipo suggeriscono che la Dea fosse non solo pronta a creare, ma agisse anche come una forza di evoluzione spirituale. Ciò è corroborato dai riti di altre divinità come Artemide, Diotima e Sophia che erano protettrici e incarnazione della saggezza. In Grecia le Muse erano invocate da musicisti, danzatori e poeti. In India è Saraswati, signora di tutte le belle arti, del sapere e della conoscenza sia temporale sia spirituale. Tali dee sono spesso associate ai campi e all’aperto, suggerendo che non sono entità domestiche come la Madre Terra che bada al forno e al focolare. Esse rappresentano le forze che potenziano la vita mentale e spirituale fino a raggiungere un punto di estasi e spesso sono raffigurate mentre danzano. Tutte le Vergini Madri (compresa Maria, madre di Gesù) incarnano questo potere: “vergine” vuol dire senza condizionamenti, libera, indicando che la loro funzione non è quella di mettere al mondo bambini ma quella di portare l’umanità a uno stato di estasi.
La forza delle dee sfida le semplificazioni e non sorprende trovare che molte potenti manifestazioni vanno al di là di ogni distinzione. La tantrica Kali è un importante esempio, in quanto unisce simultaneamente le forze di creazione, distruzione ed evoluzione. Kali Ma, la Madre Kali, la divinità adorata da Sri Ramakrishna, è una donna sensuale, nera come la notte, ornata con una collana di teschi e una cintura di mani tagliate. Delle due braccia sinistre, quella superiore è sollevata per colpire, con una spada in mano, mentre dall’altra penzola la testa tagliata di un demone. Delle due mani destre, una è sollevata in vara mudra, il gesto del conferimento della benedizione, e l’altra mostra abhaya mudra per scacciare la paura. Ride selvaggiamente, con la lingua che pende come quella di un ubriaco dalla bocca insanguinata, mentre si abbandona alla danza sul cadavere del Tempo.
Kali rappresenta allo stesso tempo la creatrice, la preservatrice e la distruttrice dell’universo. È felicità infinita mentre calpesta il tempo nella danza dell’eterna creazione. Distrugge inesorabilmente i demoni della nostra natura inferiore mentre protegge i suoi devoti dagli assalti dell’ignoranza spirituale. Sostiene e protegge tutti quelli che giungono a lei, esaudendo i loro desideri e concedendo la gioia definitiva dell’estasi divina e della liberazione. Kali comprende tutti i diversi aspetti della Grande Dea: ci concede la vita, ci libera nella morte e ci guida a passi di danza, al di là di entrambe, nell’estasi, il centro di tutte le dimensioni di energia che costituiscono il cosmo.
Nel tantra questa energia cosmica è chiamata Shakti (dalla radice della parola che significa “essere capaci”) e le vengono attribuiti diverse forme e nomi secondo la funzione specifica e la sfera d’azione. Shakti è l’impulso creativo che rende manifesto l’universo in risposta alla coscienza ispirata. La creazione è il gioco dell’energia di fronte alla coscienza, la danza di Shakti di fronte a Shiva. In un universo che è sempre più visto dalla scienza come la matrice di campi energetici interdipendenti, Shakti è tutto.
Nel Mahanirvana Tantra, Shiva si rivolge in questo modo a Shakti: “Tu sei la manifestazione suprema di Brahman, la coscienza suprema, e da te discende l’intero universo. Tu sei sua madre. Tu sei l’origine di tutte le manifestazioni. Tu sei la forma di ogni cosa. La tua radice è in Brahman che è immobile. Sei tu, mossa dal suo desiderio, che crei, proteggi e riassorbi questo mondo in cui si trova tutto ciò che si muove e che è immobile. Quindi, adorandoti, i tuoi devoti giungeranno sicuramente al supremo”.
Shakti ha una natura duplice. È Shakti come Maya che ci copre di un velo in questo mondo di esperienza dei sensi e delusione. Ma è anche la percezione personale diretta di Kundalini Shakti che ci conduce all’illuminazione. Il tantra riconosce che il supremo è uno solo, al di là delle polarità, ma si manifesta come Shiva (maschio), la coscienza, e Shakti (femmina), l’energia. Il tantra dà importanza ai rituali della Dea Shakti, perché costituiscono il mezzo pratico (yoga sadhana) per il risveglio e l’unificazione delle energie necessarie per spingerci verso le vette dell’espansione della coscienza.

Rinascita

Il culto della Dea Madre è tuttora una tradizione vitale in India, dove Shakti è venerata nella sua forma più popolare come Kali. Il declino del culto della Dea nel resto del mondo non toglie validità alla comprensione e alle pratiche codificati in questi rituali. Ciò riflette un mutamento dei rapporti di forza all’interno del genere umano, piuttosto che una riorganizzazione delle forze dell’universo. Sembra che questo cambiamento sia iniziato intorno al 3000 a.C. e sia da collegare alle invasioni di nuove popolazioni dal nord. Ondate consecutive di invasioni durarono almeno dai mille ai tremila anni.
Le nuove popolazioni sono denominate in diversi modi: Indoeuropei, Indoiraniani o, semplicemente, Ariani. Le loro origini sono incerte, ma probabilmente discendono da comunità dell’Età della Pietra dell’estremo nord dell’Europa. Mentre i devoti della Dea erano solitamente stanziati in comunità agricole, gli Ariani erano pastori con il culto del maschile Dio del Cielo. Questa divinità mandava la pioggia per i pascoli in cambio di sacrifici animali (qualche volta umani). Queste società erano patriarcali ed erano dedite al combattimento, per cui sono conosciute come “culture dell’azza”. Qualunque luogo invadessero, lo conquistavano e stabilivano le loro leggi, portandovi i loro dei maschili della tempesta e del fuoco (Indra e Agni).
Gli Ariani raggiunsero il Punjab nell’estremità occidentale dell’India dove incontrarono gli indigeni Dravidici, che avevano una cultura avanzata simile a quella dei Caldei. I Dravidici avevano abbandonato i sacrifici cruenti e il consumo di carne, e offrivano omaggi pacifici alle forze della natura rappresentate dal lingam e dalle dee Kali e Durga. La cultura dravidica era essenzialmente una cultura tantrica. Gli Ariani introdussero quegli elementi che si sarebbero sviluppati nella cultura Indù: il sanscrito, il sistema delle caste e nuove divinità maschili guidate da Indra. Tuttavia, forse perché tributavano il culto a diverse divinità piuttosto che a una sola, erano più tolleranti verso le divinità dravidiche e il culto della Dea continuò, anche se le sue roccaforti restarono (e restano) in Bihar, Orissa e Assam: i punti più lontani dal centro d’influenza ariana. Di conseguenza i potenti misteri che gli Eleusini e la cultura occidentale avevano perduto, furono preservati, completi e incorrotti, dai tantrici dell’India che hanno trasmesso con zelo la loro conoscenza da guru a discepolo per migliaia di anni. Fino a che, circa nel 500 d. C., questa tradizione orale fu corroborata con testi scritti e oggi le due cose assieme sono il principale veicolo dell’attuale rinascita dello yoga tantrico.

Una ispirazione

Dopo centinaia di anni di quiescenza la Grande Madre si è risvegliata nella psiche umana. Il simbolo della Dea è di grande forza per le donne moderne, ristabilendo l’energia primordiale dimenticata, che integra e attiva le più profonde potenzialità femminili. La donna di oggi deve poter distruggere tutti quei concetti obsoleti e superflui che intralciano il suo sviluppo. Mentre nutre la propria luce interiore non deve tralasciare il resto, e deve stare attenta a mantenere tutto ciò che c’è di buono nell’attuale modo di vita. Questa donna è aperta a nuove intuizioni che la rendono capace di creare nuovi e più felici modi di essere. Mettendo in azione i suoi poteri dormienti, ogni donna può danzare in eterna beatitudine sul cadavere del proprio sé inferiore.

Nada Yoga

Tratto da: Paramahansa Satyananda, “Meditations from the Tantras”, ed. Yoga Publications Trust, Munger, Bihar, India.

Il significato etimologico di nada è “flusso di coscienza”; il significato corrente della parola è “suono”. L’espressione della tonalità del suono si suddivide in quattro stadi dai cui si sviluppano le tecniche di nada yoga. Questi sono:
1. Para nada o suono trascendentale. Questo suono ha una così elevata frequenza vibrazionale che va al di là della vibrazione ed è di una lunghezza d’onda infinita. Le Upanishad la chiamano Om e dicono che la sua natura è jyoti o luce. Alla fine Om è silenzio. Nella meditazione la luce e il silenzio sono la stessa cosa. Om è anahata, il suono prodotto senza percussione, che si differenzia dai suoni normali ed è senza causa, di origine naturale; Om è anahada, senza limiti o qualità, cioè il non tono. È il silenzio interiore, la radice o la potenzialità del suono. Per i Pitagorici il suono era il nulla o il collegamento con il chi. Para è l’ultimo stadio prima del samadhi.
2. Pashyanti o suono mentale. La visualizzazione di un suono o di una melodia che vi ossessiona; la musica che si sente in un sogno. È un suono più vicino alla mente che alle orecchie.
3. Madhyama o tra il suono. Un suono di frequenza più bassa dei due precedenti, ma più alta di baikhari. Un suono simile a un sussurro che quasi non si sente.
4. Baikhari o suono prodotto dalla percussione di due oggetti. La parola e la musica appartengono a questa categoria.

Il sistema universale del nada yoga – la credenza che l’universo sia solo una proiezione di vibrazioni sonore – fu formulata sulla base di esperienze reali. Nel pantheon indiano l’ultimo suono trascendentale di para è allo stesso livello della sorgente cosmica, para o Brahman. I santi mussulmani dicono che il mondo è nato da suono e forma, e anche la Bibbia cristiana dice: “All’inizio era la parola (suono) e la parola era con Dio e la parola era Dio”.
In passato lo sviluppo del sistema musicale era in stretto rapporto con la logica dei sadhana di nada yoga. Differenti onde di nada sono connesse a differenti livelli di consapevolezza della coscienza. In particolari ore del giorno o per differenti persone, certe vibrazioni di nada sono sgradevoli e altre sono gradevoli. Nella musica queste vibrazioni di nada sono chiamate raga o note musicali. La musica indiana del mattino, con vibrazioni brevi, piace ad alcuni ma non a tutti. I raga appropriati alla musica serale o di mezzanotte tendono ad essere più popolari. La musica deve essere ascoltata per diverse ore perché ne siano percepiti gli effetti.
Il nada yoga divide l’esistenza in cinque sfere: fisica, pranica, mentale, sovramentale e ananda o atman. Il nada di ogni sfera è un simbolo che rende la mente capace di passare ad uno strato più pro-fondo della coscienza. Il nada del corpo fisico è costituito dai suoni delle vibrazioni del cuore, dei polmoni, del cervello, della circolazione sanguigna e del metabolismo. Quando si trascende il piano fisico, si sentono i suoni più sottili del movimento della coscienza pranica. I nada yogi seguono il susseguirsi di suoni sempre più sottili fino a un punto posto nel loro essere più interno. Per i bhakta questo centro è in anahata chakra; per gli yogi è in agya (il terzo occhio); per i seguaci del vedanta è in sahasrara. I nada yogi trovano nada, il suono continuo, inudibile e spontaneo, in bindu.
Il nada yoga è descritto nel Bhagavata con un’allegoria: “Il signore Krishna lasciò la sua dimora a mezzanotte e andò nella jungla. Era una notte di luna piena del primo mese invernale. Iniziò a suonare il flauto. L’eco del flauto di diffuse nell’atmosfera calma e indisturbata. La musica emerse dalla jungla selvaggia e fu udita dalle gopi (le pastorelle). Quando udirono il suono del flauto, lasciarono immediatamente la loro casa, i mariti e scordarono tutti i loro doveri e la vita passata. Corsero senza pensarci verso il luogo da dove proveniva il nada dal flauto. Iniziarono a danzare attorno al flautista. Dopo un po’ di tempo successe che ognuna di loro si trovò a danzare col vero Krishna”.
Krishna rappresenta la coscienza superiore e il suo flauto che suona è il nada sadhana. I sensi (le gopi) dimenticano la realtà esteriore (i mariti) e si ritirano dagli organi di senso per danzare attorno al divino nada o suono del flauto. Il suono del flauto appartiene allo stato pashyanti, in cui non si sentono suoni reali, ma si percepiscono le frequenze che assomigliano al suono del flauto o delle campane.
Alcuni descrivono il suono finale come Om, altri dicono che è come un incessante ronzio di api. Secondo il nada yoga questo suono proviene dalla sfera oltre anandamaya kosha, cioè la terza dimensione della coscienza, che è un involucro pieno di beatitudine: un punto dove l’individuo fa esperienza del più alto stato di coscienza in nada e vede l’intero universo in forma di suono.

La pratica di nada yoga

Questa tecnica consiste nel metodo di penetrare gli strati più profondi della mente utilizzando il suono come mezzo. La scienza dello yoga, così come varie filosofie e religioni, crede che l’universo manifesto abbia alla sua base il suono. Anche la scienza concorda sul fatto che l’universo non è altro che il continuo interagire di vibrazioni, di energia vibratoria; il suono non è altro che una forma particolare di vibrazione. Lo yoga crede che anche i diversi strati della mente e del corpo, grossolani e sottili, non siano altro che la manifestazione di un numero infinito di vibrazioni sonore in una moltitudine di variazioni e combinazioni. Possiamo dire che la mente e il corpo sono la solidificazione del suono.
Questa pratica cerca di condurre il praticante, attraverso manife-stazioni sempre più sottili del suono, ad ascoltare l’intero spettro dei suoni grossolani e sottili. È una pratica eccellente per indurre il pratyahara (la dissociazione della mente dal contesto e dai sensi). Può indurre lo stato di meditazione. Come la musica può creare stati mentali sottili, nada cerca di produrre lo stesso effetto.
I principianti dovrebbero praticare in un momento in cui il contesto è molto quieto; ciò serve a evitare che i suoni esterni interferiscano con quelli interiori. Si consiglia la notte fonda o il mattino presto. Quando si diventa capaci di cogliere i suoni sottili senza difficoltà, allora si può praticare nada yoga in qualsiasi momento, in ogni luogo e perfino senza chiudere le orecchie. Per acquisire un’esperienza consistente è essenziale praticare ogni giorno. Agli inizi cercate di dedicare a questa tecnica quindici minuti o più. Quando avrete esperienza il tempo può essere prolungato come vi pare.

Pratica preliminare

Stadio 1: Preparazione
Sedete in nadanusandhana e chiudete gli occhi.
Il dorso e la testa sono eretti.
Con i pollici chiudete le orecchie.
Rilassate tutto il corpo e la mente.
Siate completamente in pace.
Sentite di dedicarvi solamente alla pratica meditativa.

Stadio 2: Il suono del ronzio
Inspirate profondamente e quando espirate producete un ronzio.
Tenete i denti leggermente separati e la bocca chiusa.
Deve essere come il suono di un’ape.
Sentitelo vibrare in tutta la testa, iniziando dalla fossetta della gola.
Eseguitelo per trenta secondi circa.
Continuate ad emettere questo ronzio per cinque minuti.
Mantenete la vostra mente sulle vibrazioni sonore.

Stadio 3: Percezione del suono sottile interiore
Ora interrompete il ronzio.
Cercate di ascoltare le manifestazioni sottili del suono, cercate di cogliere ogni suono.
Continuate ad ascoltare.
Troverete che c’è un suono che diventa sempre più chiaro, sentite la sua intensità e purezza.
Mantenete la mente totalmente su questo suono; ascoltatelo attentamente.
Se il vostro udito è abbastanza sensibile, vi accorgerete che potete sentire un altro suono oltre quello ora predominante.
Può essere molto debole, ma è percepibile.
Lasciate il primo suono.
Concentratevi sul nuovo suono che è emerso dal precedente.
Trascendete il primo suono; cercate di fare esperienza della pienezza del nuovo suono.
Continuate in questo modo.
Continuate con la pratica e se la vostra sensibilità è progredita, sarete capaci di sentire che un altro suono inizia a emergere.
Sarà debolmente percepibile oltre al secondo suono più alto.
Indirizzate la consapevolezza a questo nuovo suono.
Lasciate che questo nuovo suono occupi tutta la vostra attenzione.
Continuate in questo modo.
Percepite un suono, poi tralasciatelo quando ne sentite uno più sottile.
Più sottile è il suono che percepite, più penetrate nelle profondità della mente.
Con la pratica questa tecnica vi può portare direttamente alla meditazione.
Se non sentite alcun suono sottile al primo tentativo, non disperate; con un po’ di pratica farete sicuramente dei progressi.
Svilupperete la capacità di superare inizialmente i suoni esterni e poi, progressivamente, quelli sempre più sottili.
I suoni che si sentono dovranno essere scoperti dal praticante, ma possono comprendere suoni che assomigliano a quelli di una campana, di un flauto, di un uccello, e così via.
Questo è un metodo semplice, ma potente, per fare esperienza del vostro essere più interiore.

Stadio 4: Conclusione della pratica
Ora lentamente rendete estroversa la vostra consapevolezza.
Divenite consapevoli del vostro corpo e dell’ambiente che vi circonda.
La pratica è completata.

UNA LEZIONE DI NADA YOGA

Stadio 1: Preparazione
Sedete in una comoda posizione meditativa, la testa e colonna vertebrale erette, gli occhi chiusi.
Mantenendo gli occhi chiusi, praticate ujjayi pranayama lungo il passaggio spinale.
Dimenticate ogni cosa, inspirate ed espirate in ujjayi lungo la colonna vertebrale. Continuate a praticare ujjayi con sempre maggiore concentrazione.

Stadio 2: Bhramari pranayama
In questo stadio dovete chiudere le orecchie, sia con gli indici o i pollici, basta che possiate farlo per un po’ di tempo.
Inspirate in ujjayi dalla base alla sommità del passaggio spinale, quindi espirate producendo il suono del ronzio – hummmm.
Mentre producete questo suono, mentalmente e ritmicamente ripetete Om Om Om.
Le orecchie devono rimanere sempre chiuse, ma se vi sentite stanchi, potete appoggiare per qualche momento le mani sulle ginocchia, continuando a praticare anche con le orecchie aperte.
In ujjayi inspirate lungo il passaggio spinale, espirate con le orecchie chiuse, sincronizzando la vibrazione sonora con la vibrazione mentale di Om Om Om o del vostro mantra personale.
Il suono di Om Om Om deve essere mentale e ritmico.
Se avete il mantra personale potete utilizzarlo al posto di Om.

Stadio 3: Percezione del suono interiore sottile
Ora interrompete il ronzio.
Tenete gli occhi chiusi.
Ascoltate molto attentamente ogni suono che vi arrivi spontaneamente dall’interno. (lunga pausa)
Dopo un po’ di tempo potete iniziare a sentire un secondo suono come sottofondo al primo.
Può essere il suono di un’ape, di un motore o del mare.
Qualsiasi suono sia, sintonizzatevi con esso.
Sintonizzatevi e ascoltate solo questo secondo, nuovo suono.
Tralasciate il primo suono che avete udito prima e ascoltate solamente il secondo nuovo suono. (lunga pausa)
Ancora arriverà un nuovo suono.
Potrebbe essere il primo suono ascoltato che ritorna.
O potrebbe essere un suono completamente nuovo.
Qualsiasi suono sia, continuate ad ascoltare solo il nuovo suono.
Continuate in questo modo per cinque minuti.
Ogni volta che si manifesta un nuovo suono, sintonizzatevi con questo. (pausa molto lunga)

Stadio 4: Consapevolezza di chidakasha
Riportate le mani sulle ginocchia.
Mantenete il corpo fermo, gli occhi sono chiusi.
Questo metodo di nada yoga riduce l’eccitazione nervosa e quindi potete meditare su qualsiasi forma, su qualsiasi cosa.
La meditazione deve avvenire sulla parete interna della fronte.
Disegnate l’immagine o la forma su cui volete meditare sulla parete interna della fronte, come se fosse una lavagna.
Disegnate l’immagine mentalmente, concentratevi solo sull’immagine.
Praticate per tre minuti, senza sforzo, senza tensione, solo concentrazione profonda.

Stadio 5: Conclusione della pratica
Ora preparatevi per concludere la pratica.
Riportate la consapevolezza alla dimensione fisica.
Portate la consapevolezza al lento, regolare flusso del respiro naturale.
Divenite consapevoli di tutto il corpo fisico seduto sul pavimento.
Ascoltate i suoni presenti nell’ambiente esterno.
La pratica è ora completata.