“YOGA” 2011 – Vol. 1

“YOGA” 2011 – Vol. 1

Ricorrenza del Maha Samadhi di Sri Swami Satyananda Saraswati

Guru Bhakti Sadhana per il 5 e il 6 di Ogni Mese

A mezzanotte del 5 dicembre del 2009 Sri Swami Satyananda ha raggiunto lo stato più elevato di Maha Samadhi. Il 6 dicembre, a Rikhiapith, gli è stato dato il Bhu Samadhi. Il 6 dicembre 2010, precisamente un anno più tardi, è stato il primo giorno della Sat Chandi Mahayajna e, nello stesso giorno, è stato tenuto il Sannyasa Abhishek di Swami Niranjan, il successore spirituale di Sri Swamiji. Questa non è una coincidenza ma un’indicazione di buon auspicio. Il giorno e l’evento per il Maha Samadhi furono scelti dallo stesso Sri Swamiji e il quinto e il sesto giorno di ogni mese ci sarà abbondanza delle sue benedizioni, della sua energia spirituale e del suo splendore. Di conseguenza, a Ganga Darshan Vishwa Yogapith e a Rikhiapith, queste date sono considerate sacre e ogni mese saranno tenute delle puja e delle adorazioni speciali.
Per il beneficio di ogni devoto e aspirante spirituale, Swami Niranjan ha dato un sadhana semplice da praticare il 5 e il 6 di ogni mese. Questo sadhana rappresenta un mezzo per offrire la propria devozione e adorazione a Sri Swamiji e per sintonizzarsi con le vibrazioni superiori della coscienza illuminata emanate in quel momento.
La mattina del 5 di ogni mese, alle 6.30, in un luogo scelto per l’adorazione, pulito e decorato, dovrebbe essere accesso un jyoti (lume ad olio) davanti ad una foto di Sri Swamiji. Accanto ad essa si può collocare anche una foto di Sri Swami Shivananda. Si possono mettere dei fiori intorno al jyoti e alle foto. Si dovrebbe anche bruciare dell’incenso. È necessario avere cura di questa fiamma perché rimanga accesa continuamente dalle 6.30 del 5 mattina fino alla mezzanotte del giorno 6. Tutti i canti dovrebbero essere fatti davanti a questo jyoti e così anche le offerte e le adorazioni fatte davanti alle foto di Sri Swamiji e di Sri Swami Shivananda. Chi ne ha la possibilità può fare un’havan (cerimonia del fuoco) durante i mantra, sia nel sadhana del mattino sia in quello della sera. Chi non ha la possibilità di fare un’havan può semplicemente recitare i mantra.

Il Guru Bhakti Sadhana Semplice dato da Swami Niranjan da Praticare il 5 e il 6 di Ogni Mese

Alle 6.30 del 5 e del 6 Mattina di Ogni Mese

I Mantra per l’Havan
Vishnu Sahasranama (1.000 nomi di Vishnu) con “Svaha” dopo ogni nome. Chi non può recitare Vishnu Sahasraranama dovrebbe recitare: “Om Namo Bhagavate Vasudevaya Svaha” 108 volte.

I Bhajan, Canti Devozionali
Guru Paduka Stotram, per l’adorazione di Swami Shivananda;
Guru Stotram per l’adorazione di Swami Satyananda;

Maha Mantra Kirtan
Hare Rama Hare Rama Rama Rama Hare Hare
Hare Krishna Hare Krishna Krishna Krishna Hare Hare

Alle 18.30 del 5 e del 6 Sera di Ogni Mese

I Bhajan, Canti Devozionali
Guru Stotram per l’adorazione di Sri Swamiji.

I Mantra per l’Havan
Maha Mrityunjaya Mantra 108 volte;
Durga Battisnam (i 32 nomi di Durga) 11 volte;
Satyananda Gayatri 108 volte:
Om Paramahamsa Avadhuta Vidmahe, Satyanandaya Dhimahi,
Tanno Guru Prachodayata, Svaha;

Kirtan: Si può cantare qualsiasi Guru Kirtan.

Durante questo Sadhana è molto importante mantenere il vostro cuore aperto e ricettivo. Siate innocenti come i bambini e pieni di fede; così sentirete e sperimenterete la grazia e le benedizioni di Sri Swamiji che si manifesteranno nella vostra vita. 

Gurukripa Hi Kevalam – Il Rapporto fra Guru e Discepolo

Tratto da Rikiapeeth Blog del 22 Dicembre 2010 e del 4 Gennaio 2011. Brani scelti da: Swami Satyananda Saraswati, Light on the Guru and Disciple Relationship, Yoga Publications Trust, Munger, Bihar, India.

L’espressione Gurukripa hi kevalam significa “la grazia del guru è assoluta ed è l’unica realtà”. Quest’espressione è importante per un discepolo poiché nella sua vita spirituale e nell’abisso selvaggio della vita, verso cosa potrebbe volgersi? Quando le navi si avvicinano a un porto sono guidate da un faro. Proprio come per colui che naviga in mare un faro è molto importante, allo stesso modo il guru è importante per guidare il discepolo attraverso il deserto della vita.
Se ci pensate attentamente, vi accorgerete che, in realtà, non sapete né chi siete né dove siete. In realtà non sappiamo nulla di noi stessi e, se tentiamo di tuffarci nel profondo per acquisire autoconoscenza, affrontiamo delle esperienze paurose. Quindi, in mezzo all’oscurità della vita deve esserci, nelle mani di un viandante, una sola luce. Questa è la ragione per cui si dice: gurukripa hi kevalam.
Il mio guru, Swami Shivananda, era un santo e non un predicatore. Anche se era l’autore di più di duecentocinquanta libri, non era un intellettuale. Era come un bambino, innocente e puro nelle intenzioni, e aveva vicino a sé molti brillanti discepoli che lo servivano con amore e sincerità. Ora, così come io sento la sua grazia, sono sicuro che anche loro la ricevano.
Mentre ero con Swami Shivananda, ho lavorato sodo per superare il muro. Non avevo nessuna intenzione di avere degli ashram e dei discepoli e non avevo l’ambizione di essere promosso guru. Anche oggi non sono sicuro di essere un guru. Spesso tento di scoprirlo ma non trovo nessun guru in me mentre naturalmente trovo il discepolo. Volevo semplicemente vivere libero come un uccello, muovermi con il vento ed essere sballottato come le onde dell’oceano. Il mio ideale era di non avere nulla da fare e nulla da compiere; nulla da guadagnare e nulla da perdere: di essere e basta.
Riuscii a mantenere questo stile di vita dal 1956 al 1963. Non rimasi mai in nessun luogo né frequentai nessuno. Vissi come un comune mendicante, come uno fra le migliaia di mendicanti che trovate in India. E, se mi aveste visto, avreste avuto pietà della mia sorte. Passavo le notti nei vicoli e bevevo l’acqua ovunque. Dormivo ovunque, fra ogni genere di persone. E mi piaceva questa vita perché c’era una completa, imprecisata libertà. Nessuno pretendeva che seguissi un codice sociale o una religione. Nessuno mi parlava delle cosiddette responsabilità verso la società, la famiglia e la nazione.
Poi, una notte del luglio 1963, udii il tuono. Irruppe nel luogo dove soggiornavo e udii chiaramente il mandato, e oggi ritengo che lo seguo ancora non perché sono onorato di farlo ma perché egli mi ha scelto. Questo si chiama “grazia”.
Se egli sceglie che io soffra, lo accetterò come sua grazia. Non sono soltanto le cose buone che rappresentano la grazia; non soltanto le situazioni congeniali e positive nella vita rappresentano la grazia, sia essa del guru o di Dio. La grazia ha un obiettivo, anche se noi non sappiamo quale. In realtà la mia tradizione filosofica è il Vedanta e non lo yoga. Conosco meglio il Vedanta dello yoga perché l’ho studiato per molti anni. Tuttavia predico lo yoga, e non il Vedanta, perché sostiene che tutti soffrono di un’infermità della volontà e soltanto lo yoga potrà aiutarli.
Quando vivevo nell’ashram di Swami Shivananda mi era difficile accettare gli altri come miei compagni. Non volevo che qualcuno dipendesse da me. Il mio unico pensiero era sempre: “Sono arrivato da solo e me ne andrò da solo, devo quindi vivere da solo”.
Ma oggi, nell’ashram, trovo che tutti sono attaccati a me e le persone girano sempre per le varie stanze e mi aspettano fuori dalla mia porta. Per me tutto questo è insopportabile perché io sono un altro tipo di persona. Non mi vedrete arrivare nella vostra camera per parlarvi: non è la mia natura. Spesso ho considerato di vivere tranquillamente ma, ogni volta che ci penso, sento di nuovo il tuono: “Continua”. Va bene, continuerò con la sofferenza.
Anche se continuo ad essere un discepolo mi viene imposto di essere un guru e devo accettare quel manto pesante. Come discepolo sento di non avere altra scelta. Così, quando le persone chiedono: “Sei il mio guru?”, io rispondo: “Sì”. Preferirei dire: “Io sono come te, sono tuo fratello maggiore, il tuo amico più anziano”. Devo però dire: “Sì, sono il tuo guru”, perché la grazia del guru deve essere seguita e il discepolo non dovrebbe avere nessuna possibilità di scelta. Se c’è una scelta, c’è una cortina di ferro. Allora il guru è da una parte e il discepolo è dall’altra e la comunicazione non è possibile.
Ho letto la storia della vita di molti grandi discepoli e uno dei più recenti è Swami Vivekananda. Com’è stato sballottato dalla grazia del guru! Ramakrishna lo sommerse con la sua grazia e, per tutta la durata della sua breve vita, Swami Vivekananda si dedicò completamente alle scelte del guru. All’inizio era un uomo molto negativo che era solito dire: “Oh, questo sadhu non mi piace per niente”. Ma Ramakrishna aveva fatto la sua scelta finale e, una volta che il guru ha preso una decisione, il discepolo non ha altre vie da seguire.
Non soltanto in India, ma anche in Europa, c’è questa sacra tradizione della grazia del guru nella vita di un discepolo. Indubbiamente oggi i discepoli esistono, ma quelli che sono segnati dalla grazia del guru sono rari e spesso mi domando perché Swami Shivananda abbia scelto proprio me. Penso che potesse essere per una sola ragione: ero sempre stato un suo appassionato seguace. Anche un’azione ordinaria della sua vita significava molto per me. Annotavo ogni sua singola espressione e parola. Osservavo ogni movimento della sua vita che cosa mangiava e come mangiava, quanto dormiva, come salutava le persone e come le trattava. Vi erano momenti in cui riuscivo a predire ciò che pensava e, in altre occasioni, riuscivo a predire ciò che avrebbe fatto prima che lui avesse avuto la possibilità di decidere. Un discepolo deve capire prima che il guru possa decidere.
In certe situazioni i residenti dell’ashram mi chiedevano cosa pensassi che avrebbe fatto Swamiji e io ero in grado di fare delle previsioni precise. Quando stavo accanto a lui, riuscivo a vedere come funzionavano le correnti del suo pensiero. Anche ora non credo che egli sia morto. Lo è certamente, ma è molto difficile per me sentire questo perché, quando era in vita, il corpo che percepivo non sembrava essere composto di una sostanza empirica. Sembrava fosse fatto di una fine sostanza divina. Io vidi il suo corpo in questo modo per ben dodici anni e non soltanto per un giorno.
Durante la mia vita con Swami Shivananda non vi fu un solo momento in cui io non fossi in sintonia con lui. Occorre stabilire questo tipo di unità tra il guru e il discepolo, poi la grazia fluisce automaticamente. Così, l’espressione è gurukripa: “grazia”, hi: “certamente”, kevalam: “assoluta”.
Io credo in Dio tanto quanto la maggior parte di voi, ma cosa pensare di lui e come pensare a lui? Che cos’è e cosa non è? Dio non è un uomo. Non è semplicemente un piccolo idolo: egli è la totalità. Come posso pensare alla totalità con questa piccola mente? La mente è finita e Dio è infinito. Potete credere che una mente finita possa mai visualizzare l’infinito?
Per poter sperimentare, conoscere e vedere l’infinito, dovete prima essere l’infinito. Pertanto anni fa sono giunto alla seguente conclusione: bisogna unirsi con il proprio guru, diventare una sola cosa con lui. Proprio come il sale si scioglie nell’acqua, lo zucchero nel latte e la fragranza nell’aria, così diventate una sola cosa e non due cose. L’acqua diventa salata e il sale diventa acquoso. Essi adottano le qualità l’uno dell’altra. Occorre raggiungere questo genere di unità, poi la grazia del guru sarà sempre presente. Ma, per quanto noi possiamo parlare, la vita pratica è un’altra faccenda. La mente è una materia molto dura da plasmare e noi falliamo anche se conosciamo la verità.

Qual è il vero rapporto fra guru e discepolo?

Oggi molti guru ingannano i loro discepoli. Il rapporto fra guru e discepolo è un argomento vasto. Questa tradizione esiste fin dai tempi antichi. Vi sono vari tipi di guru: il kula guru è il guru di famiglia e poi vi è il guru adhyatmico o spirituale. Esiste certamente un rapporto fra il guru e il discepolo ma non occorre che sia mantenuto da tutti coerentemente. Il rapporto fra il guru e il discepolo è una realizzazione molto elevata. È molto difficile da spiegare. Non aspettatevi di avere un’immediata linea diretta, un collegamento telepatico con il guru.

Ricevere il sadhana

Il rapporto fra guru e discepolo è essenziale perché un guru è necessario per la crescita spirituale. Tutte le religioni, le filosofie, i saggi e i veggenti hanno detto all’unisono che è necessario ricevere un guru mantra: il rapporto inizia con il mantra, questa è la base del rapporto fra guru e discepolo. Tutto ha inizio con il mantra e successivamente, quando il guru sente che il discepolo sta facendo progressi, sono dati altri sadhana (pratiche spirituali). Dopo tutto, non tutti i sadhana possono essere dati fin dall’inizio. Il guru non vi dà tutte le lezioni in una sola volta. Dovete cominciare dall’ABC. Prima fate il vostro japa e, dopo un anno o due, vi dirà di fare qualche altra cosa. Se siete un cantante potrebbe dirvi di cantare “Om” tutte le mattine. Potrebbe chiedervi di fare bhramari pranayama alle quattro del mattino perché vede che avete quell’inclinazione. Oppure, se osserva che la vostra mente è molto irrequieta – andate a letto all’una del mattino e vi svegliate alle due del pomeriggio, viaggiate intorno al mondo, vi occupate delle tasse – potrebbe chiedervi di fare del pranayama ogni mattina in modo che il sistema nervoso non sia influenzato negativamente. Se tentate di superare un grande ostacolo, potrebbe chiedervi di compiere un anushthana (un sadhana disciplinato programmato per un dato periodo). In questo modo, rapportandosi lentamente con il discepolo, il guru lo porta a uno stato tale che il discepolo si rende conto che tutto ciò che accade nella sua vita, qualunque cosa sia accaduta e accadrà, era designata. Così si acquisisce la conoscenza del karma e di colui che crea il karma; si acquisisce la conoscenza del destino.

La ricerca del guru

Molte persone sono alla ricerca di un guru. Qual è il criterio per la ricerca di un guru? Su quale base scegliete un guru? Proprio come ci dev’essere un criterio per trovare un marito o una moglie, dev’esserci un criterio per trovare un guru. Il criterio dev’essere qualcosa che mantiene stabile il rapporto. Il rapporto fra guru e discepolo dovrebbe essere costante ed eterno. Molte persone continuano a cercare un guru e a misurarlo con un righello: “Lui non è lungo cinque pollici e sette centimetri. Cancella!”.
Il rapporto fra un guru e un discepolo è uguale a quello fra un ragazzo e una ragazza. Un solo sguardo e c’è il colpo di fulmine! La bhakti si è svegliata. La mente diviene completamente tranquilla. Non dovreste avere alcun parametro per giudicare il guru. Quando vi siete appena iscritti in una scuola non chiedete le qualifiche dell’insegnante. Sareste sciocchi, come potreste capire le sue competenze? Voi cercate di valutare se il guru è all’altezza per voi, quando non avete la capacità di farlo! Recatevi dal guru con la mente vuota, cercate un guru con una mente vuota. Il rapporto fra il guru e il discepolo è tale che, quando vi recate dal guru, la mente diventa tranquilla.
Quando lasciai casa mia, andai nel Rajasthan. Là avevo una sorella adottata che era medico. Si interessava di spiritualità e quindi pensai che potesse dirmi qualcosa. Mi dette l’indirizzo del suo guru. Ci andai e lui fu felice di vedermi poiché pensava che un ragazzo istruito come me potesse avere cura dell’ashram per lui. Mi vide come un suo potenziale successore. Era un brav’uomo. Imparai molto da lui. Era molto versato negli aspetti teorici del tantra. Rimasi là per sei mesi. Avevo grande rispetto per lui e anche lui mi teneva in grande rispetto. Un giorno però nella mia testa accadde qualcosa. Dissi fra me e me: “Non voglio diventare un successore. Se devo avere cura di una proprietà tanto vale che torni a casa mia”. Scalai quindi il muro dell’ashram, alto dodici piedi, e scappai.
Presi un treno, dove incontrai un mahatma dai capelli aggrovigliati e una lunga barba. Mi chiese: “Dove stai andando?” Risposi: “Voglio diventare un discepolo. Ho bisogno di un guru”. Egli si infuriò e mi rimproverò ma poi mi portò a Kali Kamliwala Gurudwara a Rishikesh e disse: “Cerca qui. Questo è il luogo dei guru”. Il giorno dopo andai da Vishnudevanandaji al Kailash Ashram. Mi prostrai ai suoi piedi e dissi: “Voglio prendere il sannyasa”. Egli disse: “Prendi il sannyasa e vieni qui. Ti permetterò di restare ma non ti darò il sannyasa perché io non lo do. Sono semplicemente l’acharya di un akhara”. Poi mi raccontò di Swami Shivananda.
Nel momento in cui vidi Swami Shivananda terminarono tutti i miei pensieri di cercare un guru. Dissi tra me: “Resta qui”. La persona davanti alla quale il desiderio di amore cessa e si realizza la fede, shraddha, quella è il vostro guru. Egli è il vostro innamorato. A partire da quel momento restai là.
Le circostanze furono molto difficili. Il nostro guru non era ricco, dovevamo mendicare il cibo e dormire per terra. Eravamo devastati da punture di zanzare, gli scorpioni ci camminavano addosso, c’erano serpenti e l’acqua del Gange era sporca. Ma noi non eravamo infastiditi. Quando ripenso a quei giorni, mi meraviglio di come sia rimasto là. Guruji restava nella sua stanza e non riuscivamo mai a incontrarlo. Rimaneva nel suo kutir e noi lavoravamo all’aperto. Ora, potreste dire che se un guru e un discepolo non si incontrano nemmeno, com’è possibile che il discepolo impari qualcosa?
Cucinavo, lavavo le stoviglie, portavo l’acqua dal Gange, tagliavo la legna, facevo sei chilometri in salita all’ufficio distrettuale per ottenere un permesso per comprare una razione di zucchero dal negozio. Facevo tutto ciò che fa un servo a casa. Lavorai come un servo nell’ashram. Ma come furono felici quei giorni! Talvolta vorrei poter lasciare questo corpo e vivere nuovamente in un ashram come quello perché è molto bello vivere come discepolo in un ashram mentre non è bello vivere come guru. La gioia che esiste nel vivere come discepolo non esiste quando si vive da guru.
Il rapporto fra guru e discepolo è, in un certo senso, un rapporto d’amore. L’unica differenza sta nel fatto che, mentre nel mondo materiale la base dell’amore è la vita umana, qui la base dell’amore è la vita spirituale. Nel primo caso lo chiamate “amore”, in questo caso si chiama “bhakti”. Là lo chiamate ishk majaji; qui lo chiamate ishk hakiki. Là lo chiamate amore mondano; qui lo chiamate amore spirituale. Qui due anime si uniscono e, per mezzo di questa unione spirituale, nasce il bambino della saggezza. Dopo tutto, il nostro Guruji fece sì che noi dessimo la nascita a dei figli, non è vero? Ma chi è il figlio che abbiamo fatto nascere? La forma di quel bambino è jnana, la saggezza.
È essenziale avere un guru. Che vogliate studiare fino al livello primario o intermedio, al liceo o all’università, avete bisogno di un insegnante. Allo stesso modo, se volete sapere come percorrere il sentiero spirituale, trovate un guru. Anche se volete fare semplicemente mantra japa, trovate un guru. Se volete imparare hatha yoga, raja yoga, bhakti yoga o jnana yoga, dovrete trovare un guru.

I falsi guru

Ricordatevi sempre questo: anche se un guru non è genuino, un giorno dovrà diventarlo. Immaginate, per un momento, che qualcuno si sia messo le vesti di un guru per ingannare i discepoli. Anche se ciò fosse, non potrebbe farlo molto a lungo. Prima o poi il suo spirito si risveglierà interiormente e lo obbligherà a diventare un vero guru. Ho visto succedere ciò a molte persone. Non parlo di uno o due falsi guru che potrebbero esistere, ma in questo paese non mancano i veri guru.
L’India è il paese dei guru. Le persone vengono qui a migliaia in cerca dei guru. C’è qualcuno che va in Russia alla ricerca di un guru? Oppure in America? Forse vanno in America per studiare e per guadagnare denaro, ma avete mai sentito parlare di qualcuno che andrebbe in America in cerca di un guru? Chiunque voglia trovare un guru dovrà venire in India. Questo significa che il mondo intero ammette che i guru esistono realmente in India. Se desiderate contestare questo, fatelo. Il mondo intero, dall’Alaska alle Isole Falkland, all’Irlanda accetta che l’India sia la terra dei guru. È qui che le persone possono ricevere una formazione spirituale. Tutti i paesi occidentali hanno dei centri yoga e dei centri spirituali in ogni angolo, ma continuano a venire in India per cercare i guru. Perché? Perché, proprio come l’uno senza l’altra, la vita di un uomo e di una donna è incompleta, così anche la vita di un aspirante spirituale è priva di senso senza un guru.

La Luce Divina

Tratto da: Rikhiapeeth Blog dell’11 Gennaio 2011.

I seguenti articoli sono stati scelti per celebrare il Sannyasa Divas di Swami Niranjanananda, che è stato iniziato al sannyasa l’11 gennaio 1971, all’età di undici anni.

Nel 1995, durante la storica Sat Chandi Maha Yajna a Rikhia, Swami Satyananda riconobbe formalmente la vita esemplare di Swami Niranjan quando disse, davanti a tutti i partecipanti:

“Così oggi Swami Niranjan ha ricevuto la sua iniziazione che è ora terminata. La Madre sarà testimone e lo sarete anche tutti voi. Io passo a Swami Niranjan i due maggiori valori della mia vita tantrica: lo sphatik mala e lo sphatik lingam (mala, o rosario, di cristallo e lingam, o forma della coscienza cosmica, di cristallo). Sono sicuro che egli guiderà tutti voi attraverso le tenebre che ci circondano. Ogni volta che nella vostra vita c’è oscurità e dimenticate la via, egli è colui che potrà dirvi dove andare e cosa fare.
Swami Niranjan iniziò i suoi dodici anni di sannyasa nel 1983 e ora li ha completati. È stato con me fin dalla nascita ma, nel 1983, gli ho passato la mia successione, e ora siamo nel 1995. Sono passati dodici anni ed egli ha dato prova di sé. Durante questi dodici anni ha fatto una vita dura e rigorosa.
La maggioranza dei nuovi sannyasin non mi conosce. Sono feroce come Bholenath (il feroce cane da guardia alsaziano che apparteneva a Swami Satyananda, n.d.t.). Non sono e non sono mai stato un guru dolce. Molti discepoli hanno fallito perché pensavano: “Che tipo di guru è mai questo? Il guru non dovrebbe arrabbiarsi, non dovrebbe fare questo e quello”. Ma Swami Niranjan mi ha accettato così come sono. Se un discepolo non accetta un guru così com’è, per lui non vi è nessuna salvezza né nessuna strada. Non dovreste desiderare che il guru si adatti alla vostra immagine.
Così Swami Niranjan è passato con pieni voti. Non l’ho nominato dopo averlo guidato. Prima che lui nascesse, prima ancora che sua madre lo avesse concepito, dissi a suo padre e a sua madre: “Il mio successore nascerà tramite voi”. Swami Dharmashakti lo partorì e oggi lei è qui con noi.
Oggi la Dea Madre è testimone e tutti voi siete testimoni del fatto che ho passato i due tesori senza prezzo della mia vita spirituale a Swami Niranjan. Uno è un mala di cristallo e l’altro è il lingam di cristallo. Swami Niranjan ha lavorato molto duramente. In genere i discepoli vogliono vedere nel guru la propria immagine autocreata. Se questo è il caso, allora il discepolo diventa il guru e il guru diventa il discepolo. Ma lui non ha mai tentato di vedere me a sua immagine. Ha sempre avuto il sentimento: “Qualunque cosa tu vuoi che faccia, la farò”. Sono sempre stato un guru duro, ma Swami Niranjan mi accettò così come ero. Se volete veramente trovare il vostro guru, dovete accettarlo nella sua vera forma. Una volta deciso: “Questa persona è il mio guru”, allora dovete accettarlo così com’è. Tentate e modellatevi secondo la sua forma e non modellate lui secondo la vostra.
È molto difficile essere un discepolo. Nessuno diventa discepolo semplicemente prendendo un’iniziazione o fumando la pipa del guru. Quando un falegname vuole fare qualcosa da un pezzo di legno, concepisce ciò che formerà e lo forgia a modo suo. Il legno viene tagliato, cesellato e limato, ma non contesta il falegname. In modo simile, un pezzo di stoffa non contesta il sarto. Il cuoio non contesta il ciabattino. Ho indicato Swami Niranjan come mio successore nel 1983. Ora i suoi dodici anni sono completati e gli ho passato lo sphatik mala e il lingam. Ho piena fiducia che egli arriverà nella vostra vita spirituale come una luce divina, e che da lui riceverete tutto.

Swan – il Cigno

Swami Niranjan fu iniziato da Swami Satyananda alla tradizione di Paramahamsa il 31 dicembre 1989. Il simbolo dei Paramahamsa è il leggiadro cigno. Non c’è da meravigliarsi se le persone riuscivano già a vedere le qualità di grazia, equilibrio, eleganza e bellezza interiore che un paramahamsa rappresenta poiché, molto prima dell’iniziazione, in tutto il mondo, le persone avevano iniziato a chiamarlo “Swan – il cigno”. La sua natura semplice e tranquilla, l’enorme viveka e vairagya (discernimento e distacco) la sua capacità di discernere ciò che è reale da ciò che è irreale, la sua umanità e l’empatia con le persone, giustificano la sua iniziazione a questa sacra linea di Paramahamsa.
Quando gli hanno chiesto di parlare di Swami Niranjan, Swami Satyananda lo riassunse molto bene così:
“Cosa c’è da dire di Swami Niranjan? È il dono che Dio mi ha fatto. Dio lo ha messo nella mia borsa. È proprio il contrario di me. Non è una copia carbone; è il mio compimento, la mia completezza.
Swami Niranjan è stato con me fin dalla nascita. Mi ha donato tutto: la sua gioventù, il suo futuro, l’intera sua vita. Non ha né moglie, né figli, né conto in banca, né proprietà, né ambizioni e non ha nessun desiderio se non quello di servire. Ha sempre avuto il sentimento: “Qualunque cosa vuoi che faccia, io la farò”. Io sono sempre stato un guru duro ma Swami Niranjan mi ha accettato così com’ero. Sono sicuro che vi guiderà attraverso l’oscurità che vi circonda. Quando vi è oscurità nella vostra vita e dimenticate la strada, egli è colui che può guidarvi. Ho piena fiducia che arriverà come una luce divina nella vostra vita spirituale”.

Dagli Insegnamenti di Swami Shivananda Saraswati

Il Silenzio

Lo scopo della vita è il silenzio. Il silenzio è il linguaggio di Dio o Brahman. La pace è silenzio. Il silenzio è il linguaggio del cuore. Il silenzio è il linguaggio del saggio. Il silenzio è immensa forza. Il silenzio è grande eloquenza. Il silenzio è potenza. Il silenzio è una forza vivente. Il silenzio è la sola realtà. Oltre tutti i rumori e suoni vi è silenzio, la vostra anima più interiore. Il silenzio è un’esperienza intuitiva. Penetrare nel silenzio è divenire Dio. Non vi è balsamo guaritore migliore del silenzio per coloro hanno il cuore ferito da fallimenti, insoddisfazioni e perdite. Il silenzio di cui godete durante il sonno profondo e il silenzio di cui fate esperienza a notte fonda vi può dare l’idea dell’esisitenza di quell’oceano di silenzio.

Makar Sankranti

Makar Sankranti segna il transito del sole nel Tropico del Capricorno e il primo giorno di Uttarayan. Per gli aspiranti di tutto il mondo questo giorno ha uno speciale significato poiché, il periodo di sei mesi durante il quale il sole viaggia verso settentrione, è molto favorevole alla loro marcia verso lo scopo della vita. È come se l’aspirante fluisse facilmente con la corrente che va verso il Supremo.
Quello del sole è un messaggio di unità, imparzialità e vero disinteresse. Il sole è un vero Karma Yogi. Splende in uguale misura su tutti: è il vero benefattore di ogni essere. Senza il sole la vita sulla terra perirebbe. È estremamente regolare e puntuale con tutti i suoi doveri e non richiede mai un premio né desidera un riconoscimento. Se assorbite queste virtù del sole, quale dubbio può esserci: brillerete con lo stesso splendore divino! 

Impressioni

Di Sannyasin Sevamurti.

Hari Om Swamijiii!!!
Le voci gioiose dei bambini presenti che conducono mantra, bhajan e havan prima dei Satsang gridano il saluto e annunciano l’arrivo di Sw. Niranjan…
Sono di nuovo a Munger per partecipare al programma di Satsang fissato dal 2 al 6 gennaio. Se per questo inizio del 2011 avevo sperato e desiderato qualcosa di veramente speciale, il mio desiderio è stato esaudito e nonostante l’iniziale preoccupazione nel dover affrontare un viaggio così lungo in un tempo relativamente breve, devo riconoscere che, una volta arrivata a Ganga Darshan, la scelta di dedicare questi giorni ai Satsang è stata senza dubbio il miglior regalo che potessi farmi.
Il 31 dicembre è un tranquillo giorno di preparativi e ambientamento e dalla bacheca degli annunci apprendiamo che, per il primo giorno dell’anno, è previsto un programma particolare: una havan il mattino presto nei giardini dell’Akhara e un programma pomeridiano dedicato ad Hanuman.
Quindi all’alba del primo giorno dell’anno tutti noi presenti a Ganga Darshan ci siamo diretti verso l’Akhara, il cielo era ancora buio, i giardini risplendevano delle luci di tante candeline che rendevano l’atmosfera di quel luogo ancora più magica, abbiamo preso posto e Sw. Niranjan ci ha annunciato che in quel giorno iniziava il suo Sankalpa per il 2011 e che per ogni giorno dell’anno avrebbe recitato per 3 volte i 1000 nomi di Durga. Mi ha molto colpito che Sw. Niranjan abbia voluto tutti noi presenti nel momento in cui ha dato inizio al suo Sankalpa, in fondo il Sankalpa è un pensiero, un proponimento che resta segreto; ho interpretato questo gesto come la volontà di condividere e renderci partecipi, un gesto per non farci dimenticare anche quando saremo lontani nelle nostre case, dedicati alla nostra vita, il suo quotidiano impegno, un gesto, soprattutto, per spronarci nel perseguire i nostri intenti.
A mezzogiorno, dopo il pranzo, ci siamo trovati nel prato a lato del Main Building dove era stato allestito un palco ed una tettoia che dall’indomani avrebbero ospitato i Satsang. Qui è iniziato il programma dedicato ad Hanuman: mantra, kirtan, la recitazione del Ramayana ed infine Hanuman Chalisa, la ripetizione per 108 volte, un intero mala, di questo poema che celebra la devozione di Hanuman per Sri Rama. Il canto, dal ritmo molto allegro, è durato l’intero pomeriggio; mentre le ore passavano, ai microfoni si alternavano le bambine e alcuni Swami dell’Ashram e per gran parte del tempo abbiamo anche avuto l’onore della presenza di Swami Satsangi, arrivata da Rikhia per l’occasione.
Come sono coinvolgenti questi programmi! Anche se non vi è la completa comprensione intellettuale dei testi e nonostante la difficoltà, soprattutto di noi occidentali, di seguire il ritmo della recitazione, l’effetto che si riceve anche solo ascoltando è incredibile: dopo ore passate seduti, non si sente la fatica, la stanchezza, la scomodità; il ritmo e la melodia sostengono il corpo e calmano la mente.
Al termine di questo lungo pomeriggio la cena, prima di ritirarci nelle nostre stanze.
Il 2 gennaio iniziano i Satsang con il consueto programma: il mattino il satsang in hindi e il pomeriggio quello in inglese.
Si è tentato di svolgere il programma all’esterno ma il clima è stato poco favorevole, Ganga Darshan era avvolto da una spessa nebbia e così ci siamo trasferiti nella sala al secondo piano del Main Building che veniva riscaldata e resa più accogliente da grandi bracieri. La sala era gremita, veramente in tanti, soprattutto indiani, hanno accolto l’invito di Sw. Niranjan a questi Satsang di inizio anno e il tema affrontato è stato il sistema di vita di Sannyasa.
Sw. Niranjan è “cresciuto” nella personalità, nel carisma, nel portare la responsabilità che il suo ruolo richiede, le sue parole sono risolute, decise, non ci risparmia rimproveri e ammonimenti senza mai perdere nella sua esposizione il senso dell’humor e la dolcezza. Ci illustra la storia della tradizione di Sannyasa, l’importanza che questa tradizione ha avuto nella società del passato e avrà sicuramente nella società del futuro, ci parla della serietà cui sono chiamati tutti coloro che aderiscono allo stile di vita di questa tradizione, ci esorta a coltivare la nostra vita spirituale, ad impegnarci per modificare il nostro stile di vita e sviluppare gli aspetti positivi della nostra personalità, ci suggerisce periodi di vita di ashram perché “per modificare lo stile di vita è necessario modificare prima la mente” e l’ashram e la sua guida sono le condizioni migliori per farlo.
L’attenzione dei presenti è altissima e ognuno riceve dalle sue parole ispirazione e consiglio. Lo sguardo di Sw. Niranjan spazia per la sala e sembra che i suoi occhi cerchino e si soffermino per un istante sugli occhi di ciascuno di noi. Quando in uno dei satsang in hindi annuncia la sua intenzione di rimanere a Munger per fondare a Paduka Darshan il Sannyas Pith, riceve un lungo applauso dagli indiani presenti.
La sera, dopo la cena, ci ritroviamo per cantare dei kirtan, una volta ci viene mostrato un video con Sw. Niranjan a Paduka Darshan, un’altra sera un video di un vecchio satsang di Paramahansa Satyananda; la sera del 5 gennaio, nella ricorrenza del samadhi di Paramahansaji, siamo di nuovo nei giardini dell’Akhara dove assistiamo Sw. Niranjan nello Shiva Lingam Abhisheka. Questa cerimonia, così come Sri Yantra Abhisheka, che si celebrerà il pomeriggio del 6 gennaio alla conclusione dei Satsang, sarà ripetuta ogni mese, negli stessi giorni, in onore di Paramahansa Satyananda. Al termine della cerimonia veniamo invitati ad entrare nella stanza dell’Akhara che ospita Sw. Niranjan durante il suo sadhana: l’atmosfera in quell’ambiente è così satura di energia che sembra quasi ci sia un attrito maggiore nei movimenti che facciamo nello spazio di quella stanza particolare che attraversiamo rispettosi, in silenzio.
I giorni dei Satsang sono volati ed è il momento di lasciare Ganga Darshan. Torno a casa felice per gli insegnamenti ricevuti e per il tempo trascorso in compagnia di tanti amici con cui ho condiviso l’esperienza; nel profondo del mio cuore la consapevolezza che questi giorni sono stati l’inizio di un lungo viaggio che porterà molto lontano.

Hari Om Swamiji!

La Bhagavad Gita

Tratto da: Swami Niranjanananda Saraswati, Yoga Sadhana Panorama, vol. V, Yoga Publications Trust, Munger, Bihar, India.

La Bhagavad Gita fornisce un modello dello sviluppo della personalità umana. I diciotto capitoli di cui è costituita trattano le trasformazioni interiori degli atteggiamenti, del comportamento, della percezione e della comprensione che la persona deve sperimentare durante il suo viaggio spirituale, iniziando con il senso di abbattimento riguardo allo scopo della vita e terminando con l’identificazione con la natura trascendentale.
In diciotto capitoli la Bhagavad Gita descrive l’evoluzione o progressione della personalità umana a partire dallo stato di depressione, disperazione e scoraggiamento che la persona sente quando è soggetta alla dualità della vita, cioè all’attrazione e alla repulsione. Questo rappresenta la normale esperienza di ogni essere umano. La Bhagavad Gita definisce il processo di trasformazione del proprio comportamento promovendo le qualità positive per far crescere ed evolvere la personalità. Quindi stiamo parlando della Bhagavad Gita in rapporto allo yoga. Tutti i capitoli sono collegati tra di loro. Ogni capitolo indica differenti comportamenti, trasformazioni e livelli di comprensione che è possibile sviluppare prima di arrivare a un punto in cui la persona si identifica totalmente con la natura propizia che appartiene allo spirito.

Capitoli 1-6

In questo mondo viviamo in un unico punto, in un unico luogo. Creiamo un altro mondo intorno a noi con le nostre associazioni e ci identifichiamo con quelle associazioni. Quando le nostre aspettative ed ambizioni sovrastano la nostra saggezza veniamo colpiti dalle nostre acquisizioni e dalle nostre perdite. Questa fluttuazione fra il guadagno e la perdita porta a un naturale senso di abbattimento che diventa come l’ambiente di questo pianeta, l’area esterna della nostra dimensione, della nostra esistenza. Questo è dovuto al nostro condizionamento. Il condizionamento rappresenta l’interazione delle vritti fra di loro, che porta a vishad, l’insoddisfazione, la sensazione di inettitudine e di disperazione. A questo punto tentiamo di cercare delle soluzioni possibili per superare le cause del nostro abbattimento. Qui inizia la ricerca di una soluzione. Questo è il tema del primo capitolo della Bhagavad Gita.
Il capitolo due è intitolato Samkhya Yoga, lo yoga della conoscenza sequenziale. Come in un processo meditativo, sviluppate la capacità di conoscere, riconoscere e osservare la sequenza degli eventi, delle influenze e dei condizionamenti che esistono nella vostra vita. Questo è il primo passo per trovare la soluzione, per riottenere il proprio equilibrio e per superare lo stato di abbattimento con maggiore chiarezza, comprensione, creatività e saggezza. Sviluppate questo come processo meditativo per scoprire voi stessi.
Il capitolo tre, Karma Yoga, lo yoga dell’azione, definisce come perfezionare le abilità delle azioni che svolgiamo nel tempo, nello spazio e nel luogo, sviluppando e portando avanti la nostra creatività e partecipazione alla vita, non fuggendo dalla vita.
Il capitolo quattro definisce Jnana Karma Yoga, lo yoga dell’azione e della conoscenza. Realizzate che le azioni, come karma, governano la vita e l’esistenza ad ogni livello. Il corpo sperimenta dei karma naturali sui quali non abbiamo alcun controllo, come la digestione, la respirazione, le secrezioni, la circolazione del sangue, il battito cardiaco, ecc. Vi sono dei karma consci che possiamo controllare e che sono il risultato delle nostre interazioni. Poi vi sono dei karma inconsci, al livello più sottile, non sensoriale, al livello cosmico universale. I karma sono la ragione per la quale vi è l’esistenza. Se non vi fosse alcun karma non vi sarebbe alcuna vita. Perciò devono prima essere comprese le azioni che svolgiamo attraverso i sensi e la mente.
Nel capitolo cinque, Karma Sannyasa Yoga, lo yoga della rinuncia all’azione, seguono le istruzioni su come liberarsi del bagaglio in eccedenza. Lasciate dietro ciò che è indesiderabile e portate avanti ciò che è desiderabile, le forze e le qualità promettenti che vi innalzano.
Par raggiungere il culmine della realizzazione a livello mondano, a livello fisico e mentale, dobbiamo seguire il sentiero della meditazione, il tema del sesto capitolo, Dhyana Yoga. La meditazione diventa il mezzo per dissociarsi e separare se stessi dal dolore causato dalle sofferenze e per connettersi con la gioia di vivere.

Capitolo 1

Il primo capitolo della Bhagavad Gita è Vishada Yoga, lo yoga dell’abbattimento. La disperazione entra nella nostra vita a causa del nostro condizionamento. Il primo passo nel processo dello yoga è il riconoscere i nostri condizionamenti. Dobbiamo riconoscere che l’abbattimento, la depressione, l’euforia, l’ansia, la frustrazione e la felicità sono tutte manifestazioni del nostro condizionamento e del nostro attaccamento e associazione con il condizionamento stesso. Se amiamo qualcuno è a causa del condizionamento, fra i sensi e l’oggetto, che si manifesta nella forma di attrazione, affettività, amore. Se abbiamo antipatia per qualcuno, si tratta nuovamente di una associazione dei sensi con l’oggetto che fa emergere un’altra esperienza, quella di rigetto, di repulsione, di antipatia o del desiderio di evitare qualcosa o qualcuno. Quindi, l’abbattimento è l’esito del condizionamento, che normalmente non riusciamo a controllare, poiché siamo soggetti al comportamento dovuto dal condizionamento. Allora come possiamo superare questo condizionamento? Come possiamo sottrarci dall’attrazione magnetica del condizionamento?
La storia inizia con due gruppi di persone che lottano per i propri diritti: i Pandava, cinque fratelli, e i Kaurava. I due gruppi sono imparentati fra loro ma ai Pandava è stato negato il diritto di ereditare il regno. La guerra riguarda proprio questo. Arjuna, il guerriero, sul campo di battaglia vede tutti pronti a combattere, per vincere o per morire. Quando li vede, in lui si genera un conflitto mentale e inizia a razionalizzare. Eccoci qua, a esigere il nostro diritto di ereditare l’impero. Stiamo combattendo per quel diritto e anche l’altra parte combatte per quel diritto. Perché desideriamo un regno? Per la prosperità? Per il piacere? Per stabilire il nostro diritto a essere dei regnanti? In questo processo, se tutto sarà distrutto, se le persone saranno uccise, quale sarà il piacere finale una volta vinta la guerra? I nostri amici e la nostra famiglia saranno morti o feriti, quindi per chi sto combattendo questa guerra? Troverò piacere se i miei cari saranno distrutti? Cosa farò di un regno vuoto? È a questo punto che Arjuna perde il disegno del dharma e la confusione entra in scena.
Il tema del primo capitolo è incapsulato nel verso 33 in cui Arjuna pensa:

Yeshaamarthe kaankshitam no raajyam bhogah sukhaani cha
Te ime’vashitaa yuddhe praanaamstyaktvaa dhanaani cha.

Coloro per il bene dei quali noi desideriamo il regno, il godimento e il piacere sono qui pronti a combattere, avendo rinunciato alla vita e alla ricchezza.

Una volta entrati nel campo di battaglia siete pronti ad affrontare la morte e quindi a rinunciare alla vita. Rinunciate alla ricchezza perché, una volta uccisi, a cosa serve la ricchezza? Trovarsi sul campo di battaglia pronti a combattere, avendo rinunciato all’attaccamento alla vita e all’associazione con le ricchezze, è uno stato mentale molto difficile da gestire e da comprendere. Qual è il ruolo della persona in una simile situazione? Possiamo gestirla in modo più efficiente oppure dobbiamo attraversare quel processo di morte e di distruzione? Nel secondo capitolo Krishna appare, al fine di illuminare Arjuna.

Capitolo 2

Il secondo capitolo è Samkhya Yoga, lo yoga della conoscenza sequenziale. Samkhya significa “sequenza”. Una sequenza indica un ordine di successione, una serie di cose che si susseguono in ordine. Se guardate in sequenza i numeri da uno a dieci, troverete che in ogni numero della successione viene aggiunto il numero uno: uno più uno diventa due, due più uno diventa tre, e così di seguito. Questa è la sequenza, questa è l’evoluzione, la crescita della vita. Tuttavia, se mescolate i numeri, la catena viene interrotta e i numeri non hanno una sequenza logica. Quindi Samkhya significa la sequenza in cui si aggiunge sempre uno. Samkhya rappresenta la mappa della vita, dell’esistenza, del proprio rapporto con la natura interiore e con la natura trascendentale.
Krishna dà questa mappa della vita ad Arjuna e dice: “Tu sei qui; riconosci dove sei e vivi in base al dharma del presente, del “qui e ora”, non secondo il bisogno delle tue emozioni e dei tuoi desideri”. Sviluppate una visione complessiva. Sviluppate un quadro completo della vita, delle vostre responsabilità, dharma, obblighi e aspirazioni, e riconoscete che nella vita vi è una sequenza. La sequenza è l’evoluzione e la crescita. Se non vi è nessuna sequenza non vi è nessuna logica. Riconoscere che vi è una progressione sequenziale della vita, il dharma e il karma, è il messaggio del secondo capitolo.
Dharma significa rettitudine: il dharma non vi permette di percorrere il sentiero della non rettitudine. Senza il dharma potrete essere sia retti che non retti, buoni e cattivi, antipatici e simpatici ma, se vivete secondo il dharma, allora avete un unico sentiero: quello della rettitudine. Quindi riconoscete a che punto siete e vivete il dharma del presente ma cercate di conoscere anche la sequenza, la progressione che dovete sperimentare e attraversare per realizzare la libertà interiore dagli attaccamenti e dalle associazioni che vi recano dolore, che turbano la mente creando la sofferenza, l’ansia e l’angoscia. Il secondo capitolo della Bhagavad Gita fornisce la mappa per vivere una vita spirituale.
Le principali affermazioni del secondo capitolo sono nei versi 14 e 38. Perché sorge l’abbattimento? Nel verso 14 Krishna afferma:

Maatraasparshaastu kaunteya shiitoshna sukhaduhkhadaah
Aagamaapaayino’nityaastaamstitikshasva bhaarata.

I contatti dei sensi con gli oggetti che causano il calore e il freddo, il piacere e il dolore hanno un inizio e una fine; essi sono impermanenti; sopportali con coraggio.

Nel verso 38 Krishna dice:

Sukhaduhkhe same kritvaa laabhaalaabhau jayaajayau
Tato yuddhaaya yujysva naivam paapamavaapsyasi.

Avendo reso uguali il piacere e il dolore, il guadagno e la perdita, la vittoria e la sconfitta, impegnati nella battaglia per la battaglia stessa; così non incorrerai nel peccato.

Il secondo capitolo parla delle coppie degli opposti che influenzano la nostra mente, le emozioni, le sensazioni e le azioni. Fintanto che siamo influenzati dalle coppie degli opposti ci identifichiamo e ci associamo con esse ma, se riusciamo a liberarci dalla loro influenza, allora vi è chiarezza mentale. La depressione e l’euforia conducono a dei particolari comportamenti mentali ma, se non vi è né la depressione né l’euforia e noi siamo equilibrati, le percezioni mentali cambiano. Il secondo capitolo della Bhagavad Gita si concentra sulle coppie degli opposti.

Capitolo 3

Il terzo capitolo è Karma Yoga, lo yoga dell’azione. Il primo fattore coinvolto nella gestione dei condizionamenti della vita è lo svolgimento dell’azione, l’atteggiamento e il comportamento. Qui karma non significa attività fisica o sensoriale ma copre l’intera personalità. Le proiezioni e le espressioni della personalità condizionata sono karma e le proiezioni e le espressioni della personalità libera dalle attrazioni e dalle vritti sono anch’esse karma, poiché la vita è karma. Possiamo anche dire che siamo vivi a causa della forza vitale ma in realtà siamo vivi a causa del karma. Karma è la forza vitale, il destino, la direzione in cui tutti noi ci muoviamo. È il programma della nostra vita. Noi non siamo privi di una direzione. Il programma della vita è karma sia a livello fisico sia a livello trascendentale. Karma è la reale causa del condizionamento poiché quel condizionamento è inerente nel programma del karma.
Karma yoga significa “riconoscimento del karma”, in modo graduale, a tutti i livelli. Iniziate con il karma fisico: in che modo influenza la mente, come crea disturbi e angoscia, come nuovamente vi porta la felicità e la soddisfazione e quali sono gli atteggiamenti di cui avete bisogno per mantenere in armonia i karma. Questo è l’allenamento del karma yoga. Nel karma yoga affrontiamo molte situazioni che talvolta possono essere frustranti ma dobbiamo capire che siamo noi la causa della nostra frustrazione. Quando comunichiamo una cosa ci aspettiamo e crediamo che l’altra persona sappia tanto quanto noi riguardo all’argomento trattato. Non scendiamo al loro livello perché siamo orgogliosi della nostra conoscenza. Poi, più tardi, quando le cose non avvengono come desideriamo, vi è frustrazione, ansia, rabbia, angoscia e confusione.
Comprendere il karma e, con l’aggiunta della parola yoga, non essere influenzati da esso è l’argomento del terzo capitolo della Bhagavad Gita. Questo è il primo sadhana. Siate consapevoli di come svolgete le azioni. Siate consapevoli del vostro karma. Siate consapevoli di come reagite e rispondete alle situazioni e se la vostra reazione vi limita o vi innalza. Se riuscite a fare questo siete un karma yogi poiché troverete il vostro equilibrio nell’azione. Quando trovate l’equilibrio nell’azione e diventate un karma yogi, salite di uno scalino sulla scala dello yoga.
Tutto nella vita è governato da karma. Karma non significa l’azione che svolgete attraverso i sensi e gli organi sensoriali, attraverso le mani, le gambe, gli occhi o la mente. Karma significa la continua attività sequenziale che copre l’esistenza e il creato, sia a un livello superiore sia a un livello grossolano. Noi ci identifichiamo con quel karma perché vi è sempre un’aspettativa riguardo al risultato.
Il tema principale del terzo capitolo sta nel verso 19:

Tasmaadasaktah satatam kaaryam karma samaachara
Asakti hyaacharankarma paramaapnoti puurushah.

Quindi, senza attaccamento, svolgete sempre le azioni che occorre svolgere poiché, attraverso lo svolgimento dell’azione senza attaccamento, la persona raggiunge il Supremo.

Attraverso lo svolgimento delle azioni senza aspettative e senza attaccamento la persona raggiunge il supremo stato di contentezza e di armonia. Questo è in relazione al riconoscimento di come il comportamento esteriore altera la pace e la stabilità del sé, disturba la passività del sé e sottolinea l’aggressività del mondo materiale. Azione significa identificarsi con l’aggressività del mondo materiale; inazione significa identificarsi con la natura passiva e stabile del sé interiore. Una volta che vi identificate con la natura stabile del sé, in modo naturale le aspettative e il desiderio dei risultati cesseranno gradualmente di dominare la vostra vita e vi libererete dai karma.

Capitolo 4

Il quarto capitolo è Jnana Karma Yoga, lo yoga dell’azione e della conoscenza, della comprensione del processo karmico, della causa e dell’effetto. Noi raccogliamo ciò che seminiamo e dunque, al posto di qualità negative possiamo piantare delle qualità positive e virtuose, delle qualità che ci potranno essere utili e che nutriranno la nostra vita. I frutti sono meglio delle spine perché essi nutriranno certamente la vita. Mentre svolgete il karma siate oculati nell’osservare l’esito del karma e chiedetevi se alla fine esso è ciò che desideravate. Facciamo tante cose come reazione e poi dopo ci sentiamo colpevoli e tristi e accusiamo noi stessi perché le abbiamo fatte. È questo che in definitiva ci aspettavamo del nostro coinvolgimento? Se non è ciò che ci aspettavamo allora perché non sviluppare la capacità di gestire le situazioni, le influenze, le azioni, i comportamenti al fine di raggiungere il risultato desiderato? Aggiungere la componente di conoscenza e di saggezza al karma è il secondo passo così come viene definito nel quarto capitolo.
L’affermazione importante del quarto capitolo è nel verso 20:

Tyaktvaa karmaphalaasangam nityatripto niraashrayah
karmanyabhipravritto’pi naiva kinchitkarati sah.

Avendo abbandonato l’attaccamento ai frutti dell’azione, sempre contento, senza dipendere da nulla, la persona non fa nulla anche se sta svolgendo un’azione.

Prima della rinuncia occorre che ci sia la comprensione e la consapevolezza dei karma o azioni. La persona deve diventare il drashta o osservatore del karma. Come? Rendendosi conto del proprio attaccamento ai frutti dell’azione. Fintanto che sarete il drashta sarete contenti ma, se vi coinvolgete, allora vi assoggettate alle influenze dei karma: la tristezza, la felicità, la frustrazione, l’ansia, la motivazione, l’ispirazione. Fintanto che siete in grado di osservarli in modo oggettivo, siete in pace con voi stessi, liberi dalle influenze dei karma. Quindi svolgete le azioni senza alcun attaccamento all’esito.
Il quarto capitolo continua nel verso 22:

Yadrichchhlaabhasantushto dvandvaatiito vimatsarah
Samah siddhaavasiddhau cha kritvaapi na nibadhyate.

Contento di ciò che viene, senza aspettativa né sforzo, libero dalle coppie degli opposti e dall’invidia, con la mente equilibrata nel successo così come nel fallimento, attraverso l’azione la persona non è legata ai karma.

Questa è la realizzazione che è necessario sviluppare seguendo il sentiero del jnana yoga, osservando ed analizzando le interazioni, le reazioni, le motivazioni, le aspettative e i desideri. Osservateli, gestiteli e siate liberi dai loro effetti.
Se siete all’aeroporto e continuate a guardare l’orologio, chiedendovi quando arriverà la chiamata per la partenza, ciò non accelererà il vostro viaggio. In quel momento il vostro ruolo dovrebbe essere quello di sedervi tranquillamente e di rilassarvi sapendo che alla fine l’aereo decollerà e il viaggio sarà completato. Ma se continuate a sentirvi ansiosi riguardo al viaggio, questo è coinvolgimento. L’ansia non accelera il viaggio che procederà con i propri tempi. Siate rilassati quando vi trovate in una situazione: questo è l’atteggiamento che occorre sviluppare. Non tentate di ottenere qualcosa, perché ciò vi affaticherà troppo e svilupperete certi condizionamenti, certe aspettative e certi desideri che, se non verranno soddisfatti, condurranno nuovamente all’ansia e alla depressione. Quindi la consapevolezza e la comprensione delle azioni è il tema del quarto capitolo.

Capitolo 5

Il quinto capitolo è Karma Sannyasa Yoga, lo yoga della rinuncia all’azione. Una volta che siete diventati consapevoli dei vostri karma e del loro risultato, prendete sannyasa da essi, rinunciate a essi. Non portate il fardello sulle spalle. Lasciatevi dietro ciò che non è necessario e prendete ciò che è utile. Lasciate l’associazione con i karma negativi, con il vostro sé tamasico, e alleggerite i vostri karma. Connettetevi con il vostro sé positivo e sattwico. Una volta che avete identificato ciò che vi angoscia e ciò che vi innalza, allora rinunciate a ciò che è indesiderabile. Alleggerite voi stessi attraverso il karma sannyasa, abbandonando l’associazione con i karma negativi e con il vostro sé tamasico, connettendovi con il vostro sé positivo, sattwico. Nel karma sannyasa i bagagli in eccesso cadono via. Rinunciate al karma non desiderabile. Non c’è nessun bisogno di attaccarsi a esso, neanche nel ricordo. Nella vostra vita ciò che è passato non ritorna.
Anche nella memoria ci aggrappiamo a un karma indesiderabile. Manteniamo più il ricordo di ciò che è doloroso piuttosto che il ricordo di ciò che è buono, e questo ci fa reagire in un modo ancora più intenso. Non è soltanto al karma che state rinunciando, ma anche alla vostra associazione con quel karma che rimane in voi nella forma di ricordo. L’azione e il ricordo devono essere visti insieme; lo strumento dell’azione e l’impressione che essa si lascia dietro: il timbro di gomma. Potete buttare via il timbro di gomma, ma che cosa farete dell’impressione che ha lasciato dietro di sé? Potete rinunciare all’azione ma cosa fare del ricordo? Il concetto del sannyasa, o rinuncia del karma, è a entrambi i livelli. Anche il ricordo del condizionamento tamasico, limitante e negativo, va rilasciato. Questo è il vero significato di karma sannyasa. I karma sannyasin devono ricordarsi di questo, perché questo dovrebbe essere il loro sadhana, oltre ad asana, pranayama e meditazione.
Incontriamo molti scogli nella vita e portiamo il fardello con noi. Così, iniziate con le piccole cose. Prima di spostare il mobilio dobbiamo spazzare e pulire il pavimento, altrimenti la polvere andrà ancora più in profondità nel rivestimento e creerà del lavoro in più. Noi commettiamo l’errore di tentare di spostare il mobilio senza pulire, senza la purificazione. Bisogna raggiungere la comprensione e la consapevolezza del fatto che dobbiamo liberarci dai condizionamenti negativi e restrittivi. Karma sannyasa è fare lo sforzo, non è semplicemente essere iniziati come un karma sannyasin ma è praticare i sistemi di karma sannyasa.
Nel verso 11 Krishna dice:

Kaayena manasaa buddhyaa kevalairindriyaairapi
Yoginah karma karvanti sanyam tyaktvaatmashuddhyaye.

I karma yogi, avendo abbandonato l’attaccamento, svolgono le azioni soltanto con il corpo, con la mente, con l’intelletto e con i sensi, senza il sentimento di “mio”, semplicemente per il beneficio dell’autopurificazione.

Prendete l’esempio di un agricoltore che prepara il terreno, pianta i semi e ne ha cura finché non germogliano e fruttificano. L’agricoltore svolge i karma e naturalmente vi è l’aspettativa di un buon esito. Allo stesso tempo non vi è nessun controllo sugli elementi responsabili per la maturazione del seme. Il ruolo dell’agricoltore è soltanto quello di creare le giuste condizioni. Così voi dovete creare le giuste condizioni e poi il seme germoglierà automaticamente. Anche se siete coinvolti nelle attività ci sono molti fattori che non riuscite a controllare. Così siate pure coinvolti, ma non identificatevi.
Questo è il concetto di rinuncia. Non rinunciate a tutto. Ricordatevi attentamente questo. Rinunciate a ciò che non è desiderabile, al bagaglio in eccesso, e viaggiate leggeri. Esaminate a fondo la vostra borsa da viaggio. Se riuscite a viaggiare con due paia di vestiti invece di venti il vostro bagaglio peserà soltanto sei chili al posto di quaranta chili. Volete portarvi quaranta chili sul groppone oppure soltanto sei chili a mano? È vostra la scelta. Questo è il concetto di rinuncia. Lasciate andare ciò che non è desiderabile. Non siate ossessionati da un avvenimento o da una situazione non desiderabile, ma imparate a lasciarla andare e a non portarla con voi.
Prendete in considerazione quanto bagaglio in eccesso portate con voi. Il bagaglio in eccesso crea un’emozione negativa, un’esperienza frustrante, l’ansia, il desiderio, che diventa un ulteriore condizionamento. Perciò rinunciate a ciò che non è necessario. Potete lasciarvi dietro ciò che non è necessario se vi identificate con il momento attuale e non rimuginate sul passato, sulle aspettative e sui desideri futuri. Questa è la rinuncia del karma. Di fatto, esso è karma sannyasa e il sadhana per i karma sannyasin. Fate tutto ciò che state facendo, ma siate consapevoli di ciò che fate e liberatevi dalle influenze di quelle azioni.

Capitolo 6

Il sesto capitolo è Dhyana Yoga, lo yoga della meditazione. Dhyana significa meditazione. Osservate la progressione. Dopo l’introduzione nel primo capitolo, arriva la comprensione sequenziale della vita, poi la conoscenza dei karma che governano la vita e le nostre azioni, poi la loro analisi e infine l’abbandono del “bagaglio”. Dopo arriva dhyana yoga, lo yoga della meditazione. Mentre tentate di lasciare andare il bagaglio in eccedenza è necessario applicare il processo meditativo. L’obiettivo del processo meditativo è affermato nel verso 23:

Tam vidyaad duhkhasamyogaviyogam yogasanjnitam
Sa nishchayena yoktavyo yogo nirvinna chetasaa.

La separazione dall’unione con il dolore è dhyana yoga. Dhyana yoga dovrebbe essere praticato con determinazione, con una mente che non sia scoraggiata.

Fintanto che sarete attaccati alle coppie di opposti, sarete uniti con il dolore e il piacere. Nella meditazione tagliate la connessione con il dolore. Questo diventa il punto focale della meditazione e soltanto allora iniziate a sperimentare la pace e la tranquillità, l’armonia e l’equilibrio. Fintanto che ci saranno delle connessioni, se vi identificherete con il dolore e con la sofferenza non potranno esserci l’armonia e l’equilibrio. Un piatto della bilancia sarà sempre più basso dell’altro. Il dolore e la sofferenza rappresentano la maggiore causa di squilibrio nella nostra vita. La felicità non crea squilibrio. Così l’obiettivo della meditazione è di recidere la connessione con il dolore associato alle coppie di opposti. La separazione dall’unione con il dolore è dhyana yoga. Se volete riuscire nella meditazione, allora il verso 23 è il sutra che dovete seguire. Praticate la meditazione con determinazione e con una mente che non sia avvilita. Quando praticate la meditazione non identificatevi con la disperazione della vita ma con la speranza, non con la debolezza ma con la forza. Identificatevi con la qualità della vita. Così, la pratica di meditazione qui descritta è finalizzata alla connessione con il sé positivo, ottimistico.
Il processo di meditazione è ulteriormente descritto nel verso 24:

Sankalpaprabhavaankaamaamstyaktvaa
Manasaivendriyagraamam iniyamnya samantatah.

Abbandonando senza riserva tutti i desideri nati dal pensiero e dall’immaginazione, e controllando completamente l’intero gruppo dei sensi da tutti i lati con la mente.

Questa è la teoria del pratyahara: il trattenere e il controllo dei sensi. Il verso 25 continua:

Shanaih shanairuparamedbuddhyaa dhritigrihiitayaa
Aatmasamstham manah kritvaa na kinchidapi chintayet.

Poco a poco ottenete la tranquillità controllando stabilmente l’intelletto; avendo fatto sì che la mente si stabilisca nel Sé, non si dovrebbe pensare ad altro.

Questo è dharana. Tenere stabilmente sotto controllo l’intelletto diventa dharana. Stabilire la mente in se stessa diventa dharana. Quando avete attraversato le pratiche di pratyahara, quando abbandonate tutti i desideri nati dal pensiero e dall’immaginazione e controllate i sensi, e quando avete attraversato le pratiche di dharana, reggendo fermamente l’intelletto, e facendo sì che la mente diventi stabile in se stessa, allora ha inizio dhyana. Dhyana è la dissociazione del sé dalle esperienze del dolore e dall’identificazione con lo stato di gioia. Questo è il tema del sesto capitolo della Bhagavad Gita, lo yoga della meditazione.

Hatha Yoga Pradipika

Tratto da: Sw. Muktibhodhananda Saraswati, Hatha Yoga Pradipika, Yoga Publications Trust, Munger, Bihar, India.

Capitolo 1: Asana

Verso 14

In questo modo, dimorando nell’eremo, essendo privi di ogni pensiero (eccesso di attività mentale); yoga dovrebbe essere praticato nel modo insegnato dal guru.

“Abitando nell’eremo, essendo privi di ogni pensiero”, significa che vivendo in un luogo di vibrazioni spirituali la mente è libera dai pensieri non necessari coltivati dalla società e dal moderno stile di vita. In condizioni normali la mente non può mai essere priva di pensieri. Swatmarama sta effettivamente dicendo che la mente dovrebbe svuotarsi di tutti i pensieri che sono irrilevanti per la vita spirituale. Le ansie e le preoccupazioni causate dalla famiglia e dagli affari dovrebbero essere assenti durante il sadhana, poiché tali turbamenti influenzano la capacità di concentrazione.
Indugiare sugli eventi passati e contemplare il futuro è una tendenza naturale della mente, ma questa tendenza deve essere controllata. La mente deve essere concentrata sulla pratica in corso e deve essere mantenuta nel presente. C’è un chiacchiericcio costante e abituale della mente che deve essere annullato, per questo è molto utile la pratica di antar mouna.
Una mente indisciplinata è come un bambino turbolento, che racconta storie, vi distrae continuamente dal vostro sadhana. Se state lavorando nel vostro studio, non permettete ai bambini di venire a disturbarvi; lo stesso concetto si applica quando praticate il sadhana. Quando la mente è assalita da pensieri non voluti e irrilevanti, dovreste coltivare l’abitudine di mettere da parte questi pensieri fino a quando avete finito il vostro sadhana. Questo non significa che coloro che non hanno il controllo della mente non sono ammessi a praticare. In effetti, oggi, la maggior parte delle persone soffre di debolezza mentale. Pochi hanno un reale controllo della propria mente. Nell’attuale stadio di evoluzione dell’uomo la mente è debole. Tuttavia, dobbiamo iniziare da qualche parte, perciò è meglio che non vi preoccupiate delle attività mentali; semplicemente fate le vostre pratiche e lasciate che la mente faccia ciò che vuole. Se non cercate costantemente di bloccare e reprimere la mente, essa diventerà obbediente e concentrata automaticamente.
Ai tempi di Yogi Swatmarama le persone erano, probabilmente, di natura più sattwica. Attualmente le persone sono tamasiche o rajasiche. Una persona sattwica avrà una mente tranquilla e il suo sadhana progredirà non ostacolato dalle chitta vritti, “le modificazioni mentali”. Tuttavia, una persona rajasica avrà una mente molto irrequieta e oscillante, mentre una persona tamasica avrà una mente ottusa e pigra. Perciò, dobbiamo fare delle concessioni.
Dobbiamo anche ricordare che ai tempi di Swatmarama più persone erano in grado di dedicare tutta la loro vita, o buona parte della loro vita, al sadhana. Non è possibile per le persone di quest’epoca abbandonare tutti gli impegni sociali e, semplicemente, praticare il sadhana per tutto il giorno. Poche persone si possono organizzare per distaccarsi per un mese dal lavoro e ritirarsi in isolamento per un sadhana intensivo. Questo è molto raccomandabile, ma se è poco realistico, si devono fare ulteriori modifiche. Diciamo che, per una persona comune è sufficiente avere una stanza separata e dedicare al sadhana trenta minuti al giorno.
“Lo yoga deve essere praticato come insegnato dal guru”. Questa è, probabilmente, la frase più importante di tutto il testo. Qualunque testo yogico prendiate, leggerete la stessa cosa. Lo Shiva Samhita dice: “Avendo raggiunto il guru, praticate yoga. Senza il guru, niente può essere propizio”. Secondo lo Skanda Purana, “Gli stadi sistematici dello yoga possono essere appresi solo da un guru competente”. Anche lo Yoga Bija dice che “Colui che vuole praticare yoga dovrebbe avere con sé un guru competente”. Nello Shruti è scritto che “I mahatma rivelano quelle cose solo a colui che ha una profonda devozione verso il suo guru e verso Dio”. Così il guru è l’elemento di vitale importanza nel sadhana.
Il guru non è semplicemente un insegnante di yoga. Egli è l’unico che può illuminare la vostra anima con la luminosità del proprio spirito svelato. Egli riflette lo splendore del vostro spirito e ciò che vedete in lui è in realtà il vostro proprio sé; Gu significa “oscurità” e ru significa “luce”. Guru è colui il quale rimuove l’oscurità e l’ignoranza dalla mente per rivelare la pura luce della coscienza interiore. Egli può essere un esperto di yoga o di qualsiasi scienza, o può essere completamente analfabeta. Le sue qualifiche sociali sono ininfluenti per quanto concerne la vostra esperienza spirituale. Il fattore importante è la vostra fede nelle sue parole e la vostra obbedienza; allora non importa se le sue istruzioni appaiono giuste o sbagliate, esse si dimostreranno utili per voi.
Nella scienza dell’hatha yoga c’è un sistema specifico che deve essere seguito, e se voi trovate un hatha guru, lui vi istruirà nel modo corretto in cui dovreste praticare. Ciò non significa che lo stesso sistema debba essere seguito dal vostro vicino. Il vostro guru sa come affrontare tutti i problemi individuali che avete. Se non sorge alcun ostacolo, ottimo, egli vi può guidare molto velocemente. Se state affrontando determinati problemi o difficoltà, egli saprà come guidarvi passo dopo passo, secondo la vostra personale evoluzione.
Noi abbiamo pochissima comprensione delle funzioni del nostro corpo e siamo di fatto inconsapevoli del nostro potenziale mentale. La coscienza è come un iceberg, possiamo vedere soltanto la porzione superficiale che è sopra la superficie, e a causa della nostra percezione limitata, non possiamo comprendere come lo yoga può far evolvere lo spirito dal corpo grossolano e dalla coscienza inferiore. Perciò, quando intraprendiamo un sadhana, è essenziale per noi avere la guida di qualcuno che comprende appieno il processo del risveglio spirituale. C’è solo una persona per questo obiettivo, e quella è il guru.

 

Verso 15

Mangiare troppo, sforzo, loquacità, attaccamento alle regole, stare in compagnia di persone comuni e instabilità (mente oscillante) sono le sei (cause) che distruggono lo yoga.

Secondo l’hatha yoga ci sono sei fattori principali che impediscono il raggiungimento dello stato di yoga, o unione. In hatha yoga, unione significa unire le due forze di energia nel corpo, cioè l’energia pranica e mentale che scorrono in ida e pingala nadi. Di solito queste due forze non operano simultaneamente; o predomina la forza mentale o è predominante l’energia vitale. Hatha yoga è il processo che equilibra il flusso di queste due forze che si alternano per portare un perfetto equilibrio fisico e mentale, è il processo che risveglia sushumna e kundalini. Tutte le branche dello yoga uniscono queste due energie e le canalizzano attraverso la terza nadi, sushumna. Le tre nadi – ida, pingala e sushumna – terminano in agya chakra, il centro psichico situato nella regione del midollo allungato e della ghiandola pineale. Attraverso la pratica dello yoga, ida e pingala si equilibrano, sushumna si attiva ed agya chakra si risveglia.
Ida è connessa con la narice sinistra e con l’emisfero cerebrale destro. Pingala è connessa con la narice destra e con l’emisfero cerebrale sinistro. Così come l’emisfero destro governa il lato sinistro del corpo, a livello pranico anche ida controlla le funzioni del lato sinistro del corpo. E così pure, pingala e l’emisfero sinistro governano il lato destro del corpo. Ida e pingala alternano le loro funzioni in cicli di 90 minuti proprio come gli emisferi cerebrali e le narici. Ida e l’emisfero destro attivano uno stato introverso di consapevolezza: orientamento nello spazio, abilità artistica, creativa e musicale. Al contrario, pingala e l’emisfero sinistro esteriorizzano la consapevolezza. Il vostro approccio diviene logico, sequenziale, matematico e analitico. Ida nadi controlla le attività subconscie mentre pingala è responsabile delle funzioni consce e dinamiche. Quando queste forze sono equilibrate e operano simultaneamente, allora sono attive entrambe le narici. Questo indica che è in funzione sushumna nadi. Di solito questo avviene da uno a quattro minuti tra ciascun ciclo di 90 minuti. L’obiettivo delle pratiche di hatha yoga è aumentare la durata e il flusso di sushumna e il periodo in cui entrambe le narici fluiscono simultaneamente. Allora si crea un equilibrio nelle funzioni fisiche e mentali. Quando la mente e il corpo non funzionano in armonia, c’è una divisione tra i ritmi fisici e mentali. Questo porta inevitabilmente alla malattia.
Quando un sadhaka ha intrapreso il processo di unione delle due forze opposte, ida e pingala, deve evitare tutte le attività che sprecano energia e distraggono la mente. Uno dei principali ostacoli allo yoga (o unione) è mangiare troppo. Quando il corpo è sovraccarico di cibo, diventa indolente e la mente diviene ottusa. Nel corso del tempo, le tossine si accumulano nel corpo, interviene la costipazione e tutto il sistema fisicomentale si blocca. Se il corpo è intossicato e letargico come potete sperare di fare progressi nel sadhana? Qualunque sadhana voi pratichiate, agisce come una purificazione, quindi voi semplicemente impiegherete il vostro tempo eliminando tossine e malanni. Tuttavia, se evitate il mangiare eccessivo e le sue conseguenze, allora il sadhana che state praticando vi aiuterà a progredire più velocemente. Swami Shivananda di Rishikesh e molti altri yogi hanno detto che lo stomaco dovrebbe essere riempito a metà di cibo, per un quarto di acqua e un quarto di aria.
Il consiglio successivo è che l’hatha yogi dovrebbe evitare di sforzare o affaticare troppo il corpo e la mente. Il lavoro fisico duro o l’intenso lavoro mentale mettono a dura prova uno dei sistemi energetici e possono creare ulteriore squilibrio tra le due energie. L’hatha yogi deve conservare e accumulare la sua scorta di energia per scopi spirituali e non dovrebbe sprecarla nel compiere qualsiasi impresa fisica o mentale non necessaria.
Il troppo parlare dissipa energia vitale e spreca tempo che potrebbe essere utilizzato meglio per risvegliare la consapevolezza interiore. Chiacchierare con persone che hanno un basso livello morale, una bassa coscienza e desideri sensuali non può illuminare la vostra anima, piuttosto, le loro vibrazioni negative possono influenzarvi. Le situazioni sociali e le discussioni irrilevanti distraggono di sicuro la mente dal sadhana. (continua)