L’esperienza di Amrita a Vicenza
Mi chiamo Amrita e vorrei raccontarvi la mia esperienza di insegnamento in un carcere. In realtà si tratta della Casa Circondariale di Vicenza. Fino a quel momento non sapevo la vera differenza, ma le persone che si trovano in una Casa Circondariale sono lì temporaneamente: in attesa di giudizio, o per reati lievi o perché aspettano di essere trasferite al carcere dove sconteranno la pena definitiva.
Avevo cercato diverse volte i contatti giusti per poter insegnare in carcere, ma non avevano mai funzionato. Un giorno del 2013, un vicino di casa che da sempre è impegnato nel sociale (estrema povertà, tossicodipendenti, ex detenuti) mi ha presentato al responsabile del Serd di Vicenza, il quale, dopo diversi colloqui, ha ritenuto molto interessante l’idea di proporre il corso di yoga (loro lo chiamavano laboratorio) ai ragazzi che seguono all’interno della Casa Circondariale. I loro assistiti all’interno della struttura sono tutti uomini che sono in carcere per pene causate dalla dipendenza da droghe o alcool.
Anche per loro era una novità. I laboratori da loro proposti fino a quel momento erano di lavorazione della creta e musicoterapia. Durante la lezione sarei stata affiancata da un educatore/psicologa del Serd che però non sarebbe stata solo presente, ma avrebbe condiviso e partecipato come allievo alla lezione.
Il corso sarebbe stato proposto a detenuti durante i loro colloqui di routine. A coloro che avevano un certo stato di salute, di motivazione, magari che avevano già avuto esperienze simili in strutture di accoglienza. L’attività sarebbe stata utile sia per i benefici sull’ansia, sia per affrontare la conflittualità e la quotidianità all’interno del carcere.
C’è voluta qualche settimana per iniziare il corso. L’attività era stata proposta ai loro ragazzi, e qualcuno aveva accettato. C’era poi da attendere che venissero fatti tutti gli accertamenti e pratiche necessarie affinché mi fosse concessa l’autorizzazione ad entrare.
Così, un martedì mattina, mi sono presentata davanti alla Casa Circondariale. Ad attendermi c’era il responsabile del progetto. Mi ha presentato a tutto il personale, carcerario e non, coinvolto nell’attività e mi ha fatto da accompagnatore all’interno della struttura, così da potermi muovere da sola nelle volte successive.
Alla guardiola lascio la carta d’identità e tutte le mie cose personali vanno in una cassetta per i visitatori. L’armonium e la sacca con coperta e incensi vanno al metaldetector e, come in aeroporto, anche io ci passo. Inizia quindi il percorso fatto di cortili, porte, portoni e corridoi, di chiavi che aprono e richiudono alle tue spalle, fino al cuore della struttura dove risiedono i detenuti. Qui, un ultimo corridoio, e mi trovo in una zona di servizi: l’infermeria, il teatro e la cappella. Oltre l’ennesimo portone a sbarre c’è una delle sezioni con le celle e vedo finalmente i detenuti che passeggiano dentro e fuori dalle loro celle.
La prima lezione si è svolta nel teatro. I ragazzi sono arrivati un po’ alla volta. Le guardie hanno gli elenchi dei detenuti che partecipano e li vanno a chiamare nelle varie sezioni in cui risiedono. Scoprirò con il tempo che non sempre i ragazzi vengono chiamati e ciò dipende da come girano le informazioni, dalle varie attività che devono svolgere, talvolta anche dalla volontà delle guardie o anche dal fatto che possono essere stati esonerati per cattivo comportamento.
Alla prima lezione c’erano 8 persone. Adulti fra i 20 e i 40 anni per lo più. Abbiamo distribuito i materassini, abbiamo fatto posto, spostando tavoli, sedie e altri oggetti per poter avere lo spazio per tutti.
Il responsabile del Serd ha presentato il corso e abbiamo iniziato. Ho fatto un breve discorso sullo yoga, su ciò che avremmo fatto durante quella ora e mezza e che saremmo stati insieme per 10 lezioni. Ho messo in evidenza la necessità di eseguire i movimenti proposti nel modo migliore possibile, in un’ottica di benessere, rilassamento, dove sforzo e tensione dovevano essere lasciati fuori dalla porta del teatro; così come l’idea di poter, per quel ridotto spazio temporale, godere della possibilità di fare qualcosa per sé stessi in silenzio, con calma, senza fretta o pressioni.
Il resto sarebbe venuto con le lezioni successive.
Ho fatto vedere la posizione semplice a gambe incrociate e la lezione è iniziata con un breve rilassamento in shavasana e poi i 3 Om da seduti.
Le loro voci erano molto leggere e temo si sentissero anche a disagio ma superata questa fase, la parte dedicata ai PMA, shakti bandha, asana e rilassamento è stata praticata senza difficoltà.
Durante la lezione li osservavo per verificare che le posizioni venissero eseguite bene, affinché non si facessero male. Molti di loro, infatti, erano giovani e vedevo che spesso prendevano la posizione per renderla più fisica, più muscolare. Altri invece erano più rigidi e vedevo che si sforzavano di fare certi movimenti. Credo ci fosse anche una componente di competizione o di non voler apparire più deboli o non capaci di fare qualcosa che io e gli altri sapevano fare meglio.
Nel rilassamento finale, così come quello iniziale, è stato un momento particolare dovendo tenere gli occhi chiusi. Ho visto che qualcuno faceva difficoltà, si guardava in giro, guardava gli altri. Poi i 3 Om da seduti e la lenta conclusione. Qualcuno era riuscito a rilassarsi, altri invece credo di no. Ho concluso ringraziandoli e invitandoli a ripetere ciò che avevamo fatto insieme, i movimenti, il rilassamento o le respirazioni. E che sarebbero stati ripetuti ma che durante il corso, per quanto breve, sarebbero state proposte diverse tecniche.
La lezione si è conclusa e il coordinatore dell’attività ha ribadito la necessità di fare il possibile per frequentare. Che dipendeva anche da loro organizzarsi il tempo e le attività in modo da poter essere presenti.
Il responsabile presente alla lezione mi ha detto che l’aveva trovata piacevole e decisamente interessante per i ragazzi che l’avrebbero frequentata.
Come insegnante sono tornata a casa felice, anche se un po’ stordita da tutte quelle nuove situazioni in cui mi ero trovata ma come tutte le cose nuove poi, conoscendole diventano familiari.
Così, abbiamo continuato e nelle lezioni successive sono stata affiancata da una operatrice del Serd e anche da psicologhe tirocinanti. Anche loro partecipavano come allieve alla lezione e mi davano il loro feedback finale, sia su come avevano vissuto la lezione, sia su come vedevano i partecipanti prima e dopo la lezione.
Ci sono state lezioni più numerose altre in cui eravamo anche solamente in 3. Essendo un corso breve ho proposto molti PMA, 1 shakti bandha, e 1-2 asana. Ho introdotto il pranayama per arrivare alla respirazione completa, e yoga nidra breve.
Questo permetteva a tutti di poter partecipare anche se vi erano nuovi inserimenti di detenuti inclusi dal Serd o erano persone che non venivano con regolarità.
Concluse le 10 lezioni, il corso è ripreso in autunno fino a giugno per 3 anni successivi.
Ci siamo spostati dal teatro alla cappella del carcere. Il parroco del carcere era contento che la nostra attività si svolgesse lì. L’atmosfera era più raccolta, intima, ma anche più calda e accogliente. A seconda di chi arrivava per primo, si spostavano i banchi, le sedie, anche l’altare per fare spazio e tutti hanno sempre contribuito con entusiasmo in questa operazione.
Avendo una durata maggiore, ho avuto la possibilità di aggiungere più tecniche alla lezione. Dopo il breve rilassamento in shavasana, che poi verso la fine del corso veniva proposto a gambe incrociate, e i 3 Om iniziali, sono stati proposti tutti i PMA con varie combinazioni, gli shakti bandha, asana (di piegamento in avanti e indietro, torsioni, da vajrasana) introduzione del pranayama e respirazione completa. Quando ci sono state le condizioni adatte ujjayi e il primo stadio di nadi shodhana, yoga nidra man mano più lunghi con le visualizzazioni semplici) 3 Om finali e Om Shanti finale, ma non sempre. Queste pratiche sono state proposte, ma con estrema lentezza. Dovevo essere sempre pronta a rivedere la sequenza proposta in base a chi era presente.
Come insegnante, ho potuto fare le lezioni in carcere come se fosse una palestra. Le persone che lo frequentavano hanno avuto sempre un grande rispetto per me e per l’attività proposta. Come per qualsiasi corso, ci sono persone che riescono a stare ferme e in silenzio e altre che ci mettono un po’ di tempo per abituarsi. Ad ogni inizio lezione o quando arrivava una persona nuova, ribadivo la necessità di mantenere il silenzio e il rispetto per gli altri presenti, e che l’attenzione, la consapevolezza andava rivolta verso sé stessi e meno verso l’esterno. Tutto risultava chiaro quando la lezione iniziava e chi era nuovo vedeva ciò che gli altri facevano e si adattavano facilmente.
La maggioranza dei ragazzi che partecipava per la prima volta poi tornava. Dimostravano interesse e curiosità. Quasi tutti non avevano mai praticato e vederli tornare mi faceva comprendere che avevano interesse per lo yoga. Me lo dimostravano anche con l’atteggiamento di aiuto nel preparare la stanza, nel mantenere il silenzio e talvolta facendolo rispettare anche a coloro che erano nuovi. Molti di loro, per poter frequentare, rinunciavano all’ora all’aperto o ad altre attività come la palestra o chiedevano se si poteva fare la lezione in altri giorni perché coincideva con la frequenza a scuola.
Durante le lezioni, in modo discreto, li osservavo sia per correggere eventuali posizioni, ma che per capire quale potesse essere il modo in cui vivevano l’esperienza. A conclusione della lezione, una buona parte di loro avevano volti più distesi, tranquilli e spesso si assicuravano che ci fosse anche la settimana successiva.
Come figura esterna al Serd, e non conoscendo la loro storia personale, diversi di loro si sono aperti con me e si sono raccontati mentre sistemavamo la cappella a conclusione della lezione. Spesso accadeva quando non era presente nessuno degli operatori del Serd: quanto dovevano scontare, la relazione con il compagno di stanza, le difficoltà di tutti i giorni, e qualcuno anche il motivo per cui era lì. Per gli operatori del Serd questa apertura era un bel segnale: consapevolezza, responsabilità e comprensione del loro problema di dipendenza.
Gli operatori del Serd presenti alle lezioni hanno sempre trovato interessante e arricchente l’esperienza e so di qualcuno che ha proseguito con corsi di yoga anche dopo la conclusione.
Nei loro incontri settimanali con i detenuti, avevano visto dei cambiamenti positivi nei ragazzi, talvolta limitati al momento della lezione ma per qualcuno anche nella loro vita quotidiana.
Il Serd, a conclusione del corso, ha chiesto ai ragazzi di compilare un questionario di gradimento anonimo. Per la maggior parte di loro, il corso era stato utile, si sentivano più rilassati al termine della lezione, aveva migliorato il rapporto con i compagni e il Serd, l’aspettativa iniziale era stata superata e desideravano continuasse.
Come insegnate ho ricevuto tantissimo. So di qualcuno che faceva di tutto per non perdere una lezione, qualcuno che arrivava “chiuso” e finiva la lezione con un sorriso, qualcuno che veniva poco convinto che poi tornava e faceva domande. I loro sguardi e i loro grazie dopo ogni lezione erano per me un regalo prezioso.
Per festeggiare e dimostrare gratitudine e apprezzamento verso l’esperienza fatta a conclusione dei corsi, sono addirittura riusciti a fare una torta lievitata in modo totalmente artigianale in cella, in quanto non hanno il forno. Sono riusciti ad ordinare allo spaccio ciò che serviva per fare un pan di spagna con crema pasticcera e panna. E avevano anche fatto delle decorazioni. Uno sforzo davvero grande viste tutte le difficoltà che dovevano aver superato per fare questo semplice dolce.
In questa occasione molti hanno chiesto se sapessi di corsi di yoga nella loro città perché non ci saremmo più rivisti. Con altri ci siamo dati l’arrivederci a settembre con la speranza però di non vedersi se la loro situazione giudiziaria si fosse sbloccata prima. Con piatti e bicchieri di plastica abbiamo mangiato questa torta e brindato al futuro.
Certamente lo yoga ha significato molto per loro e a me, questa esperienza, ha lasciato tantissimo come insegnante e come praticante.
L’esperienza dell’Associazione Yoga Sangha Saraswati a Firenze
Nel settembre del 2017 è stato aperto, in modo del tutto gratuito e volontario, un corso di yoga nella casa circondariale “Mario Gozzini” di Firenze, per iniziativa dell’associazione Yoga Sangha Saraswati, composta da insegnanti formati con il metodo Satyananda, in Italia e in India. Questo è stato reso possibile grazie alla grande disponibilità e alla fiducia dell’allora direttrice del carcere, la signora Margherita Michelini, nei confronti dell’insegnante.
Il “Mario Gozzini” è un carcere piccolo, che ospita meno di un centinaio di uomini. La pratica riscuote interesse: nei cinque anni di esistenza del corso, un’ottantina di persone lo hanno frequentato per almeno 3-4 lezioni consecutive. In media il numero di partecipanti alle lezioni prima della pandemia e delle relative chiusure era di 8-10 persone, di cui 6-7 hanno frequentato le lezioni con molta regolarità. La ripresa è stata un po’ faticosa, anche per questioni interne al carcere (continui trasferimenti che hanno reso difficile la costituzione di un gruppo stabile, ma anche riscaldamento guasto…), ma nonostante tutto si sta ricreando una classe, seppure piccola (3-4 persone). In ogni caso il corso non si è mai fermato, tranne per causa di forza maggiore.
Per quanto riguarda i partecipanti, pochissimi sono quelli che hanno avuto modo di praticare yoga in precedenza, sia fuori dal carcere che dentro, e comunque soltanto con i libri, senza l’aiuto di un insegnante. Gli altri si avvicinano mossi dal desiderio di trovare un’attività che dia loro “pace quanto meno nel tempo che trascorre nel praticare” (tra virgolette le parole di un allievo, in risposta a un breve questionario proposto dall’insegnante). Funziona bene il passaparola. Negli allievi più assidui la pratica individuale è diventata, o sta diventando, sempre più stabile, nonostante le difficoltà legate all’ambiente (mancanza di spazio, celle affollate, limitazioni nella gestione del proprio tempo…).
Nel settembre del 2019, con l’aiuto di Swami Anandananda, abbiamo fatto recapitare a Swami Niranjanananda, da parte di tutta la classe, un cigno di carta realizzato in carcere da uno dei partecipanti. Un allievo, ormai libero, ha continuato a praticare per conto suo e ha ricevuto Mantra Diksha da Swami Niranjan (postal mantra) nell’estate del 2022.
Riportiamo alcune loro riflessioni, sempre in risposta al questionario. Le domande riguardavano, appunto, il senso da dare alla pratica, la costanza, l’osservazione di eventuali cambiamenti.
Ho un’apertura mentale maggiore, inoltre sono più consapevole dell’autocontrollo sia mentale che fisico. Vedo la vita, le persone, con un’altra umanità, e riesco ad avere una qualità di vita migliore.
Credo che lo yoga sia la cura in questo mondo malato.
Lo yoga è parte di me, è come se fosse sempre stato dentro di me.
Ad ogni respiro scarichiamo la tensione e le ansietà accumulate durante la giornata.
Ogni martedì le due ore di yoga sono un rinnovamento del corpo e della mente.
Lo yoga rappresenta un luogo dove sto bene, in pace con le mie difficoltà.
Sinceramente rappresenta solo un ottimo esercizio fisico che porta benefici anche sul lato del rilassamento. Mi piacerebbe invece farlo diventare uno stile di vita, contraddistinto da una spiritualità diversa, ma per operare questa trasformazione occorre incrementare drasticamente l’impegno e la costanza.
Mi sono accorto che, quando praticavo giornalmente, stavo meglio nel corpo e nella mente. E con lo yoga, ho iniziato ad avere anche una disciplina alimentare …, ad amarmi di più, modificando lo stile di vita che avevo avuto nel passato, in collisione con la natura che mi circondava.
Con la continuità, è come se avessi un appuntamento con il mio corpo, con la mia mente. Posso dire che sento dentro di me una carica sempre nuova di energia, per affrontare la giornata con più serenità.
È cambiato molto nella mia persona. Mi sento più tranquillo e rilassato.
Pratico soprattutto quando sento il bisogno psicofisico di applicare questa filosofia, acquisendo successivamente la capacità di trasformare il malessere in energia positiva. Nel momento in cui trascuro la pratica, sento che qualcosa viene meno a livello psicologico. Da quando ho iniziato a praticare, capisco di avere una percezione importante interiore, un benessere di grande pace in grado di farmi vedere con occhi diversi quanto mi circonda.
Le lezioni si tengono settimanalmente e comprendono asana, pranayama, yoga nidra e/o brevi meditazioni (soprattutto i primi stadi di Ajapa Japa e visualizzazioni semplici) secondo il metodo Satyananda, in un’atmosfera molto positiva, grazie alla serietà e all’impegno dei partecipanti. Quando riusciamo ad avere un po’ più di tempo, lo dedichiamo ad approfondimenti, sui principi dello yoga, sulla mitologia e l’iconografia delle divinità e anche sulla storia di Swami Satyananda, di Rikhia Peeth e della Bihar School of Yoga.
Gli allievi del corso hanno avuto l’occasione di approfondire questi argomenti e di praticare mantra e kirtan grazie alla presenza di Swami Anusandhana, che sempre prima della pandemia, alcune volte all’anno ci raggiungeva per una lezione-satsang, molto apprezzata dagli allievi. L’intenzione è di organizzare nuovi incontri appena possibile.
L’esperienza di Sw. Anusandhana a Firenze
Quando mi è stato chiesto da Jigyasu Sannyasi Mantrasiddhi di tenere una lezione di yoga e kirtan una volta ogni tanto in una prigione a Firenze, sono stato felice di avere l’opportunità di fare seva in una prigione. È stata la mia prima esperienza di condividere la saggezza e la bellezza dello yoga in un ambiente chiuso e sconosciuto. Ma, quando sono entrato in contatto con i detenuti, desiderosi di saperne di più sullo yoga, mi sono sentito a casa. Il sentimento di fratellanza e unità mi ha sopraffatto. Ogni volta che li incontro, mi sento arricchito dalla loro presenza amorevole e dall’accettazione di me. Esprimono il loro amore, gratitudine e felicità abbracciandomi. Ho trovato in loro un sincero desiderio di intraprendere la via dello yoga, anche se le loro vite sono piene di ostacoli esterni ed interni. Ciò che premia è vedere che stanno facendo uno sforzo per evolversi, per andare oltre le difficoltà, i limiti e le sofferenze della vita quotidiana in carcere.
Nel mio cuore auguro loro benessere, pace e felicità.
L’esperienza di Jn. Mantrasiddhi a Sollicciano
Qual è il segreto [della] trasformazione? I sermoni? No. Le ammonizioni? No.
Liberarsi dalle tensioni, il rilassamento e la pace mentale sono i segreti della trasformazione.
Swami Satyananda, a proposito degli effetti della pratica di yoga nidra su un gruppo di persone recluse in un carcere indiano
Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.
Art. 27 della Costituzione italiana
Da un po’ più di cinque anni un corso di yoga esiste (e resiste) nella sezione femminile del carcere di Sollicciano. Nato per iniziativa di Jessica Martensson, con la quale collaboro dal 2014, offre alle donne e alle ragazze detenute la possibilità di avvicinarsi settimanalmente alla pratica. Sempre dal 2014, Jessica ha aperto un altro corso – probabilmente uno dei pochi esistenti in Italia – destinato agli agenti di polizia penitenziaria. Noi crediamo che compito di un insegnante di yoga sia quello di mettere a disposizione di chi ne ha bisogno le tecniche che ha avuto la fortuna di poter conoscere, e se crediamo che questo sia necessario un po’ ovunque, lo pensiamo a maggior ragione di un luogo di sofferenza come il carcere, un luogo destrutturante dove entrano persone dalle vite spesso già destrutturate.
Infatti, contrariamente a quello che si vorrebbe pensare, salvo eccezioni e nonostante gli sforzi di tanti operatori attivi a vari livelli, la prigione non è un luogo in cui le persone recluse sono accompagnate in un reale percorso di riabilitazione, o di riflessione su loro stesse che le porti ad abbandonare comportamenti pericolosi o “devianti”. I motivi di questo insuccesso possono essere tanti – dal sovraffollamento alla mancanza di fondi o anche, purtroppo, a un clima culturale acriticamente repressivo… – ma quel che è certo è che la “cura” carceraria non ottiene gli effetti sperati. Basti pensare all’altissima percentuale di recidiva: una ricerca commissionata dal Ministero della Giustizia parla del 68,45% dei detenuti tra quelli non ammessi alle cosiddette “misure alternative al carcere” (le principali sono gli arresti domiciliari, l’affidamento in prova ai servizi sociali, la semilibertà, ma vengono concesse con parsimonia e per potervi accedere sono necessari requisiti che non tutti possiedono – in particolare le detenute e i detenuti stranieri –, come un alloggio, una situazione familiare e un lavoro ritenuti adeguati dalle autorità). Infine può valer la pena ricordare che Italia più di quattro persone detenute su dieci sono in attesa di giudizio, quindi potenzialmente innocenti.
Tutto ciò porta alla conclusione che il carcere funziona sostanzialmente come un contenitore, dove tenere per un periodo più o meno lungo un certo numero di persone nella condizione di non reiterare il reato (e neanche tutti i reati). Un recinto, una gabbia, nonché, come spesso viene detto, una “discarica sociale”. Per questo, e nell’attesa di un profondo ripensamento della giustizia penale che potrebbe portare a un enorme ridimensionamento se non a un vero e proprio superamento dell’istituzione (penso a esperimenti di giustizia riparativa, come sono stati condotti con successo in molti paesi), mi piace considerare il nostro seva, il nostro servizio in carcere, come una pratica “transmuraria”.
Transmurario è una bella parola che mi ha regalato un amico, rimasto per troppi anni a combattere contro i muri della prigione. Perché, si sa, il carcere è fatto di muri. Non solo quelli che si vedono da fuori: anche all’interno il carcere è pieno di muri che, anche quando si incrociano ad angolo retto, fanno perdere il senso dell’orientamento, come a creare una specie di percorso labirintico. Poi ci sono quelli più sottili, ma non meno ingombranti: il muro dell’incomprensione (a partire da quella linguistica), quello dell’ottusità burocratica di cui tutti sono vittime, quello dell’arbitrario eletto a sistema, quello della risposta farmacologica a ogni tipo di disagio… E ovviamente, come “fuori”, ci sono quelli più robusti di tutti, i muri mentali, quelli creati da noi.
Siccome non sempre – anzi, quasi mai – questi muri si possono abbattere, scavalcarli il più delle volte è molto difficile, e non conviene aspettare qualcuno che apra il cancello, non rimane che tentare di passarci attraverso. Trans-murare, per l’appunto. E lo yoga è profondamente transmurario, almeno per quanto riguarda i muri metaforici.
Come praticante di yoga ancor prima che come insegnante, questi sono i semi che cerco di spargere tra le nostre allieve, con lo scopo e la speranza di portare un po’ di sollievo nel loro quotidiano, e oltre, se lo vorranno:
- la pratica ci porta a riappropriarci della nostra creatività, della nostra determinazione, della nostra luce, diventandone consapevoli, e questo in tutte le circostanze, anche quelle più avverse;
- con le asana possiamo acquisire forza, scioltezza, equilibrio, coordinamento, con effetti immediati: cominciamo intanto a (re)imparare a camminare con la schiena ben eretta, la testa allineata, lo sguardo fermo ma senza alcuna aggressività, con morbidezza;
- e poiché ogni cambiamento fisico è accompagnato da un cambiamento mentale, sappiamo anche che la stabilità del corpo viaggia di pari passo con la stabilità psichica, e la flessibilità corporea consapevole con la capacità di adattamento, quanto mai necessaria in un ambiente di profondo disagio come il carcere;
- imparando a (ri)conoscere il nostro respiro, a partire dalla consapevolezza del fatto che stiamo respirando e che il nostro respiro ci appartiene totalmente, possiamo iniziare a portare tranquillità nella nostra mente. Anche qui gli sono effetti immediati: un respiro lento, profondo e regolare non è compatibile con uno stato di agitazione emotiva;
- osservare, essere in contatto con il proprio soffio vitale aiuta a tenere a bada l’insonnia e anche, benché possa sembrare paradossale, a difenderci dalle aggressioni olfattive che sono parte integrante dell’ambiente carcerario;
- molte tecniche di rilassamento sono molto semplici e basta poca pratica per essere in grado di applicarle a sé stessa in qualsiasi momento.
Qualsiasi cosa sembri vincolarvi o limitarvi, dichiaratevene liberi da adesso stesso.
Non c’è niente nel mondo esterno, nessuna persona, condizione o circostanza,
che vi possa portar via la libertà, che è vostra nello spirito…
Dichiarate voi stessi liberi da ansia e paura, liberi da qualunque credenza nella sorte o limitazione.
Swami Satyananda